Quarto numero, il primo del 2023.
Il 2022 per Filosofia de Logu è stato un anno importante: l’anno del rilancio, della nuova veste grafica, e della regolarità editoriale.
Ma questo è solo l’inizio.
Il 2023 sarà ancora più pieno: continueranno i numeri mensili, comincerà il seminario permanente e siamo a lavoro sul secondo volume di cui trovate il Call For Papers.
Quest’oggi vi presentiamo il numero di gennaio, “Nazione”. In esso, aperto dal lemma del Vocabolario Decoloniale di Gianpaolo Cherchi a tema Nazione. Cristian Perra tratta nel suo contributo dell’idea di subalternità attraverso l’analisi dei testi di Antonio Gramsci, mentre Samed Ismail continua il suo studio sull’opera e il pensiero di Ghassan Kanafani. Valentina Veronica Peana ci parla di Turistificazione. Omar Onnis e Edoardo Mantega ci propongono, da diverse angolature, la figura e l’opera di Sergio Atzeni. Infine, Alfonso Stiglitz ci consiglia dieci testi per conoscere l’archeologia della Sardegna.
Ringraziamo SSSilver per la fantastica copertina.
Buona lettura.
SSSilver (Sara, 1998) si occupa di illustrazione, grafica e serigrafia principalmente. Emigrata dal nord Sardegna a Torino per studiare all’Accademia di belle arti, qui segue con passione gli studi di Grafica e li intreccia alle lotte sociali, femministe e ambientali. I temi e gli stili variano tanto in base alle suggestioni del momento, soprattutto nei linguaggi digitali, mentre porta avanti una ricerca su confini, migrazioni, identità attraverso il disegno, la calcografia e la xilografia.
Quello di nazione è un concetto polisemico e multivoco, che trova vari campi di applicazione e pone – o meglio sovrappone – differenti livelli di analisi. Quando parliamo di nazione, cioè, ci riferiamo da un lato a un insieme di valori culturali e di aspirazioni morali più o meno condivisi da una determinata comunità di persone, e dunque intendiamo la nazione come un che di “spirituale”, ne parliamo da un punto di vista ideale. Dall’altro lato, tuttavia, di nazione si può parlare in un senso più concreto e oggettivo, ovvero come sinonimo di Stato. L’espressione stato-nazione, coniata in ambito anglofono e poi rapidamente diffusasi nel resto d’Europa, sottolinea questo stretto rapporto tra due termini ponendoli nel solco di una continuità storica. La nazione, in altre parole, sarebbe nient’altro che il compimento e la realizzazione del processo di formazione dello stato (cfr. Rokkan, 1999).
L’eroe Sciaddad, con la sua critica esistenziale alla vita, pone sotto accusa il dio Huba, che governa il mondo e l’aldilà secondo i termini assoluti della religione. Sciaddad giunge alla negazione della vita a partire dall’esperienza prospettica fondata sui bisogni materiali e biologici, tuttavia non rifiuta l’assolutismo in quanto tale, ma poiché incapace di riscattare l’essere umano dalla sua miseria materiale e dal relativismo intellettuale che rendono l’esistenza priva di senso. Il nostro non è un propugnatore dell’ateismo, tantomeno del nichilismo prospettico, al contrario, è un credente deluso che intende sostituirsi a Dio e perciò afferma: «ma perché sei tu Huba, perché non sono io?».
Sebbene il tema venga trattato, in nuce, negli scritti dedicati alla questione meridionale, nei quale i territori meridionali dello stato italiano (e in particolare al suo interno, i contadini del sud, i quali per Gramsci avrebbero dovuto creare, assieme agli operai del Nord un blocco storico in grado di compiere il passaggio rivoluzionario) vengono definiti come una «grande disgregazione sociale; i contadini, che costituiscono la grande maggioranza della sua popolazione, non hanno nessuna coesione tra loro»[1], incapaci di «dare un’espressione centralizzata alle loro aspirazioni e ai loro bisogni»[2], è nei Quaderni che il concetto verrà trattato in maniera approfondita.
I gruppi subalterni vengono raffigurati come frammentati e accomunati da una «tendenza all’unificazione»[3] sempre rotta dall’iniziativa dominante. Tuttavia, Gramsci, mettendo in evidenza l’esistenza di tracce di iniziativa autonoma di queste compagini, suggerisce la possibilità del loro agire politico e la loro potenziale rilevanza storica.
È un racconto lungo, Bellas Mariposas, che segna un passo in più, o forse solamente diverso (per quanto rimangano componenti della narrativa atzeniana tanto nelle intenzioni geo-sociali-letterarie quanto nell’architettura della storia) rispetto agli scritti precedenti. La giornata di due ragazzine appartenenti al mondo del sottoproletariato cagliaritano viene raccontata da Cate, protagonista e voce narrante per eccellenza, a quel “barabba de Santu Mikeli buono a raccontare e scrivere”[1]. Torna quindi il meccanismo narrativo dell’“intervista”, già adottata dall’autore per Il figlio di Bakunìn. Come definire questo racconto lungo che ci consegna, inevitabilmente, un Sergio Atzeni diverso, una storia inedita, e una città per certi versi mai narrata?
Alcune precisazioni e nozioni di base: con over tourism si intende “l’impatto negativo che il turismo, all’interno di una destinazione o in parte di essa, ha sulla qualità di vita percepita dei residenti e/o sull’esperienza del visitatore” (World Tourism Organization), eccedendo “la soglia della capacità fisica, ecologica, sociale, economica, psicologica e/o politica” del territorio. Quindi talmente tante persone allo stesso momento da rendere impossibile la vita ai residenti, e anche sgradevole l’esperienza agli stessi viaggiatori.Oltre a casi europei celebri come l’apripista Barcellona, pensiamo subito a città come Venezia, o Napoli, ostaggi di una perenne invasione turistica, che riduce l’economia locale ad una corsa al ribasso per accaparrarsi la fetta maggiore di visitatori e clienti spendenti.
La prima raccolta di saggi con cui il collettivo Filosofia de Logu si presentava ufficialmente al pubblico aveva come intento apertamente dichiarato quello di produrre uno sguardo autonomo e non subalterno sulla Sardegna. Uno sguardo che, proprio in virtù di questo suo auto-posizionamento critico, si poneva come principale obiettivo una decolonizzazione del pensiero, dell’ideologia e del senso comune sulla Sardegna e sui sardi. A partire da tale posizionamento, lo sguardo prospettico che caratterizzava il nostro primo lavoro imponeva quasi inevitabilmente di guardare all’Italia come referente principale del nostro discorso. La possibilità, cioè, di intraprendere una critica del principio di ragion coloniale in Sardegna, implicava automaticamente un rovesciamento del rapporto fra Sardegna e Continente. Questa “provincializzazione” dell’Italia è stata perciò un’operazione necessaria affinché della Sardegna si potesse provare a parlare da una prospettiva nuova, non-subalterna, decolonizzata.