Filosofia de Logu 2, la vendetta.
Nel mondo del cinema è un luogo comune che il primo sequel sia il lavoro più difficile per un regista, dopo il primo successo. Ci troviamo nella stessa situazione con Filosofia de Logu: dopo un numero che ha avuto un successo insperato vi presentiamo il suo sequel.
Il fil rouge di questo numero è quello di rintracciare tracce di Materialismo geografico – tema al quale è dedicato il lemma del Vocabolario Decoloniale di questo numero -, ovvero al mostrare come oltre alle condizioni materiali nelle quali si vive – e tra di esse – sia fondamentale il luogo nel quale si è situate e situati. Una analisi situata permette di notare come forma ideologiche – intese come espressione del qui ed ora – culturali e simboliche siano sempre determinate dal luogo in cui si vive.
In questo numero affrontiamo la questione in numerosi diversi aspetti. Da Samed Ismail che scrive la seconda “puntata” del suo studio riguardante la figura di Ghassan Kanafani, a Cristian Perra che racconta come sul lato simbolico il colonialismo non riesca ad accettare l’autonomia dei colonizzati arrivando a far risalire lo sviluppo delle civiltà ad una colonizzazione ancora precedente: una interplanetaria. Giulia Agnese Sanna ci porta a Sassari per il racconto dell’esperienza della mostra Ruinas – Eredità urbane del contemporaneo in Sardegna. Eleonora Drò e Alessandro Derrù nei loro articoli ci portano all’interno della questione linguistica sarda e della dialettica coloniale tra sardo e italiano. Jessica Perra, invece, ci porta in Kurdistan attraverso l’intervista a Alessia Manzi per parlare della scienza delle donne kurde, la Jineoloji. Andrìa Pili parlerà di Capitalismo globale e ordine bianco a partire dal testo Il bianco e il negro mentre Cristiano Sabino delle modalità escludenti e subalternizzanti dietro il ricordo. Indagine storica sull’ordine razzista di Aurélia Michel . Ma non è tutto, scoprite tutti gli altri interventi sul blog, la nuova puntata del podcast su Spotify e Youtube e la Call for papers per il nostro nuovo libro.
Ringraziamo Errepush per la fantastica copertina.
nasce a Carbonia (Sulcis, Sardegna). Si laurea in comunicazione all’Università di Roma “La Sapienza”. Lavora come visual designer freelance e per varie agenzie di comunicazione. Nel 2012 Fonda Studio Macchinette: playground creativo che realizza oggetti e grafiche interattive. Disegna e illustra per fanzine, auto-produzioni, case editrici alternative, realizza manifesti per iniziative underground, sociali e musicali. Nel 2016, insieme a Zerocalcare, firma Ultima fermata una storia a fumetti che racconta l’omicidio di Renato Biagetti.
Nel 2022 scrive e disegna Fäula Birdi , graphic novel sulla ennesima scelta dall’alto ( questa volta verde) in Sardegna.
I suoi lavori si trovano su errepush.com
L’intuizione gramsciana che permette alle studiose e agli studiosi postcoloniali e decoloniali di poter ampliare e distendere le categorie del marxismo occidentale – compito ispirato dal Fanon de I dannati della terra – è senza dubbio quella della spazializzazione del conflitto di classe, il quale travalica sé stesso in altre geografie planetarie. Edward Said avrebbe definito questa impostazione osservabile, secondo il nostro filosofo – nell’opera gramsciana successivamente come materialismo geografico, incentrato sul notare come il conflitto di classe all’interno del modo di produzione capitalistico avvenga già dopo una esclusione, quella delle soggettività extra-europee le quali hanno pagato il prezzo dell’accumulazione originaria prima che – in occidente – avvenisse «il processo storico di separazione del produttore dai mezzi di produzione»
Dalla perdita del mondo che non è più nostro, dal ritirarsi di Dio e delle ideologie, non emerge solo uno scenario in cui “tutto è permesso”, ma anche uno scenario in cui “tutto è vero”, in cui non esiste più il principio di non contraddizione. Gli occhi sono il simbolo dei due poli della conoscenza, il vero e il falso. Nell’ottica di Dio questi due poli corrispondono a quelli della morale, il bene e il male. Non a caso nel racconto la madre di ‘Abd sostiene un’altra versione dell’incidente:
Quello che ci interessa in questa sede è mostrare come l’immaginario che sta dietro queste teorie sia profondamente eurocentrico e coloniale, il che comporta il rivolgersi al cielo per superare le fallacie logiche proprie di una soggettività forclusa.
Ricostruire brevemente la storia della paleoastronautica ci permetterà di mostrare come la teoria del paleocontatto abbia dentro di sé tendenze che non possono essere spiegate se non attraverso il colonialismo e il razzismo.
È possibile scindere la fotografia dalla politica? Probabilmente per molte persone l’ausilio della fotografia non ha niente a che fare con la politica, eppure tra le sue inclinazioni figura quello del trasmettere attraverso un’immagine una sensazione, un contesto, uno spazio di libera interpretazione. Per Tano D’Amico, i fotografi sanno che la vera bellezza talvolta può essere critica, e di fatto lo è. La realtà talvolta sembra chiedere al fotografo di essere partecipata, rappresentata e criticata, gli chiede di continuare a cercare e prendere parte, a schierarsi, ad agire. Quasi come se la realtà stessa chiedesse aiuto al fotografo e a chiunque guardi.
La lingua italiana, dall’Unità d’Italia e soprattutto attraverso la modernizzazione, funge da strumento imprescindibile e omologante per l’entrata nel capitale sociale ed economico statuale.
È dai primi anni del Novecento che, come ci mostra l’antropologo Michelangelo Pira in La rivolta dell’oggetto[1], la scolarizzazione in Sardegna inizia a creare una condizione di disparità valoriale linguistica – di diglossia – in cui la lingua promossa dall’amministrazione statuale non permette e, anzi, emargina le strutture linguistiche allofone. La comunicazione si configurava unilaterale e i codici trasmessi dovevano essere imparati e ripetuti dalla popolazione, dinamiche che venivano reiterate da figure di controllo – come maestri e burocrati.
Quando sentiamo la parola “dialetto”, immediatamente vengono ricondotti ad esso dei tratti distintivi e delle espressioni tipiche di un immaginario identitario cristallizzato in una indefinita stasi atemporale. Ci si ripete spesso che il dialetto non può avere la stessa dignità di una lingua, che con esso non si possono esprimere concetti contemporanei, che è maleducazione parlarlo in pubblico, che diventa incomprensibile nel raggio di pochi chilometri, ma che comunque è degno di una cosiddetta valorizzazione di un patrimonio culturale immateriale; insomma bisogna difenderlo, ma possibilmente in un’altra lingua.
La Jineoloji affonda le sue basi in una lotta politica in chiave anti- statalista e anti- gerarchica, democratica e fondata sull’eguaglianza di genere. Per costruire un movimento di liberazione delle donne, non basta solo evidenziare la liberazione delle donne dall’uomo dominante, ma occorre spiegare che la realtà delle donne è anche politica, economica e sociale. Con la Jineoloji filosofia, ecologia, storia e tanti altri aspetti della società vengono elaborati da un punto di vista femminile; lontano dalla visione maschile a cui purtroppo siamo abituate.
Nell’Enciclopedia Francese del 1751 la voce “negro” designa gli schiavi neri in America e, per estensione, anche gli abitanti delle varie regioni dell’Africa di loro provenienza. In tal modo si diffonde l’identità tra negro, africano e schiavo. Tuttavia, come noto, la tratta atlantica è stata modesta entro tutta la storia della schiavitù, né gli africani sono stati gli unici schiavizzati e gli europei gli unici loro aguzzini. Inoltre, nel suo senso contemporaneo il termine razza compare quando la schiavitù sta venendo meno: dunque, essa non precede e non giustifica la schiavitù; al contrario, gli europei diventano razzisti proprio perché hanno reso schiavi gli africani.
Lo scorso 8 novembre si è svolto un interessante incontro, sponsorizzato dal Magdalene College e dal McDonald Institute for Archaeological Research dell’Università di Cambridge (Regno Unito), avente come titolo ‘Monuments and Monumentality in the Mediterranean prehistory: perspectives from Sardinia’, che può considerarsi una prosecuzione ideale delle discussioni dell’incontro Gardening Times, tenutosi dieci anni fa, che mirava a favorire la discussione di questioni collegate ai monumenti nel senso etimologico del termine, ovvero di luoghi di memoria.
Cos’hanno a che fare il presunto eroismo degli alpini in Russia durante la seconda guerra mondiale, la giornata che ricorda i “martiri delle Foibe”, la proposta del neo presidente del Senato di far diventare la data della nascita del Regno d’Italia “festa nazionale” e l’inserimento nella Costituzione del dovere di parlare solo la lingua italiana? Cosa si nasconde dietro le tante giornate del ricordo e della memoria che da decenni costellano il calendario delle nostre attività civili? Cosa vuol dire ricordare, quando a selezionare contenuti e modalità del ricordo ufficiale, non è un dibattito democratico fondato su premesse critiche, ma la ragione coloniale? I ricordi di Stato sono dovuti atti super partes finalizzati a rammentare il sacrificio delle vittime o piuttosto assumono gli inquietanti lineamenti di un potente dispositivo di potere che mira a reiterare e rinverdire – sotto altre sembianze – quello stesso dominio che fece sanguinare i corpi e le anime di quelle medesime vittime?
Con questa nuova rubrica mensile intendiamo mensilmente creare una costellazione di testi che possa servire a introdurre le nostre lettrici e i nostri lettori ad un determinato argomento. Si tratta di veri e propri consigli di lettura, a mano a mano forniti dal collettivo di Filosofia de Logu.
Per questo secondo numero abbiamo pensato a tredici testi, tutti in commercio, che possono essere utili per cominciare a studiare la storia e in particolare la storia della Sardegna.
Per ogni testo sarà fornita la quarta di copertina.
Consigliamo, in caso di acquisto, di rivolgersi alle vostre librerie indipendenti di fiducia.
Seconda puntata del podcast di Filosofia de Logu in collaborazione con Radio Onda d’Urto. In questo secondo appuntamento Elia Zaru intervista Sebastiano Ghisu, Omar Onnis e Cristiano Sabino riguardo alla prima prima sezione del libro “Filosofia de Logu. Decolonizzare il pensiero e la ricerca in Sardegna” (Meltemi), “Ideologia”.
La prima raccolta di saggi con cui il collettivo Filosofia de Logu si presentava ufficialmente al pubblico aveva come intento apertamente dichiarato quello di produrre uno sguardo autonomo e non subalterno sulla Sardegna. Uno sguardo che, proprio in virtù di questo suo auto-posizionamento critico, si poneva come principale obiettivo una decolonizzazione del pensiero, dell’ideologia e del senso comune sulla Sardegna e sui sardi. A partire da tale posizionamento, lo sguardo prospettico che caratterizzava il nostro primo lavoro imponeva quasi inevitabilmente di guardare all’Italia come referente principale del nostro discorso. La possibilità, cioè, di intraprendere una critica del principio di ragion coloniale in Sardegna, implicava automaticamente un rovesciamento del rapporto fra Sardegna e Continente. Questa “provincializzazione” dell’Italia è stata perciò un’operazione necessaria affinché della Sardegna si potesse provare a parlare da una prospettiva nuova, non-subalterna, decolonizzata.