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Un approccio teorico che voglia definirsi decoloniale deve fare i conti, necessariamente, con il concetto di “nazione”. Se non altro per sfatare alcuni falsi miti che questo concetto porta con sé, e che pongono una pesante ipoteca ideologica sulle varie forme di critica e di lotta politica al colonialismo.
Quello di nazione è un concetto polisemico e multivoco, che trova vari campi di applicazione e pone – o meglio sovrappone – differenti livelli di analisi. Quando parliamo di nazione, cioè, ci riferiamo da un lato a un insieme di valori culturali e di aspirazioni morali più o meno condivisi da una determinata comunità di persone, e dunque intendiamo la nazione come un che di “spirituale”, ne parliamo da un punto di vista ideale. Dall’altro lato, tuttavia, di nazione si può parlare in un senso più concreto e oggettivo, ovvero come sinonimo di Stato. L’espressione stato-nazione, coniata in ambito anglofono e poi rapidamente diffusasi nel resto d’Europa, sottolinea questo stretto rapporto tra due termini ponendoli nel solco di una continuità storica. La nazione, in altre parole, sarebbe nient’altro che il compimento e la realizzazione del processo di formazione dello stato (cfr. Rokkan, 1999).
Questo legame strettissimo fra il concetto di stato e il concetto di nazione è particolarmente evidente nel dibattito italiano. Famosa è la frase attribuita a Massimo d’Azeglio: «fatta l’Italia, dobbiamo fare gli Italiani!». Tuttavia, il senso specifico di questo fare, riferito all’idea di nazione, mi è sempre stato poco chiaro. Non ho mai capito, cioè, se questo fare la nazione (cfr. Musiani, 2018) sia da intendersi come il riportare alla luce e il restituire ad una comunità il proprio carattere originario, già da sempre presente, negato e offeso dagli oppressori di turno; o se invece fare la nazione significa crearla ex novo, dando vita ad una realtà che prima non c’era. A rigor di logica – detto in maniera semplice – se una nazione può essere fatta (come, nel nostro esempio, l’Italia) significa che essa è un prodotto secondario, derivato, che non esisteva prima e che quindi non ha nulla di originario. Eppure la totalità dei discorsi nazionalistici prendono spunto, al contrario, da una presunta datità oggettiva della nazione, considerata come una realtà in se stessa. In Italia, da questo punto di vista, la retorica risorgimentale ha lasciato un’eredità profonda sia negli autori considerati classici (cfr. Chabod, 1961) sia nelle generazioni più recenti (cfr. Rusconi, 1993; Roccucci, 2012), e il tema della nazione viene impiegato diffusamente in maniera retroattiva, facendo affondare le sue radici in contesti storici – Dante, l’umanesimo (cfr. Conti, 2021) – ben lontani rispetto a quelli in cui è avvenuta l’unità nazionale dell’Italia, ovvero quel momento storico in cui la nazione si incarna in uno stato e questo, a sua volta, si riconosce come nazione.
La domanda perciò, a questo punto, sorge legittima: stato e nazione sono sinonimi? La risposta è molto semplice, ed è no. Lo stato può infatti subire modificazioni al suo territorio, aumenti o diminuzioni di popolazione, separazioni o unificazioni. Il suo ambito di esistenza è quello della materialità concreta, e non della pura idealità, nel senso che uno stato si definisce nel momento in cui è in grado di stabilire territorialmente i propri confini, a prescindere dalle identità collettive che lo compongono. La Spagna, ad esempio, è uno stato ma non una nazione: baschi, catalani e galiziani si rifiutano da sempre di identificarsi con il potere castigliano, tanto che in più occasioni hanno tentato la secessione (l’ultimo tentativo, per quanto riguarda le vicende della Catalogna, ha portato Madrid all’applicazione del controverso articolo 155 della Costituzione, costringendo di fatto una comunità autonoma a rinunciare forzatamente alla propria autonomia). Lo Stato di Israele rappresenta un caso se si vuole ancor più eccentrico. Nella Legge Fondamentale del 2018, all’articolo 1, si definisce patria storica del popolo ebraico la terra in cui si è costituito lo Stato di Israele; la sua nazione storica, tuttavia, si fonda su una identità diasporica millenaria: essa è infatti costituita da sefarditi, ashkenaziti, romanioti, mizrahì… ebrei non israeliani, ovvero cittadini di altri stati. Questo significa che se gli stati possono benissimo esistere a prescindere dalle – e al di là delle – nazioni, queste ultime per realizzarsi hanno al contrario bisogno di uno stato in cui incarnarsi. La vicenda della ex Jugoslavia rappresenta in tal senso caso esemplare: uno stato che non era una nazione ma una molteplicità di nazioni, le quali solo successivamente ad una guerra sono diventate stati.
Il riferimento alla guerra qui non è casuale, e rappresenta un aspetto non di poco conto. La guerra, cioè, sembra essere l’unico elemento che tiene insieme e unisce lo stato e la nazione (cfr. Bonanate, 2011). La guerra, evento cardine della storia umana, riguarda lo stato-nazione nella misura in cui qualsiasi stato che entra in guerra lo fa appellandosi alla nazione, rivendicando cioè i propri interessi nazionali. La guerra, inoltre, fa nascere gli stati, tanto che si potrebbe affermare in maniera un po’ rude e provocatoria che essa è l’evento fondante dello stato-nazione (cfr. Tilly, 1984). All’indomani della Rivoluzione Francese la neonata Repubblica, minacciata dalla coalizione controrivoluzionaria dell’Ancien Régime, marcia in guerra a Valmy dichiarandosi nation armée. Essa combatte, cioè, per tutelare la sovranità della nazione. Si tratta di una nuova forma di sovranità, che non è più in mano al re, bensì appartiene al popolo. La differenza principale consiste nel fatto che sovranità del monarca gli consentiva di disporre dei propri sudditi in un’ottica patrimoniale, nella quale il popolo assumeva il valore di una informe massa apolide: ridotti a beni di proprietà del re, i sudditi sono privi di nazionalità. Al contrario, la nuova forma di sovranità nazionale che si inaugura con la rivoluzione francese, trasferendo la sovranità al popolo, crea le condizioni affinché quest’ultimo possa identificarsi con lo stato. Si diffonde così l’idea che il rapporto fra il popolo e lo stato sia un rapporto di appartenenza: “lo stato siamo noi”. È quest’idea che, in altre parole, prepara il terreno all’idea dello stato-nazione. Il fantasma che nel 1848 si aggirava per l’Europa perciò, con buona pace di Marx ed Engels, non era il comunismo ma il nazionalismo. Non è un caso, appunto, che all’indomani della Rivoluzione Francese si assiste ad una stagione di guerre per l’indipendenza e alla proliferazione degli stati nazionali (che si protrarrà fino alla stagione delle lotte decoloniali in Africa e in Asia).
Nelle sue fasi iniziali l’idea di nazione ha potuto servire come spinta al processo di democratizzazione. Intorno all’idea di un principio nazionale è stata infatti costruita la libertà di molti stati. Si sarebbe quasi tentati di affermare che l’idea di nazione costituisca una sorta di preambolo e di condizione necessaria alla democrazia. Eppure non esiste alcun motivo in base al quale questa affermazione potrebbe essere vera. Nel nome della nazione si sono prodotte guerre civili e di conquista, secessioni, insurrezioni, colpi di stato, discriminazioni e soprusi di ogni tipo. Un’altra domanda, perciò, sorge legittima: a che cosa serve l’idea di nazione? Il che equivale a chiedersi: qual è la sua funzione politica? In un saggio di qualche hanno fa (che ha offerto più di uno spunto per il presente contributo), Luigi Bonanate rifletteva sull’idea di nazione ponendosi la medesima domanda, e cercava di sviluppare degli argomenti anti-nazionali a partire da una prospettiva che si potrebbe definire “internazionalistica”. È proprio nel solco di una disciplina come quella delle relazioni internazionali che è possibile prendere coscienza dell’inutilità del concetto di nazione (cfr. Bonanate, 2011b), considerandolo come uno strumento ideologico dall’altissimo potere dissociante, divisivo, anti-universalistico. La nazione converte il rispetto del cittadino verso lo stato in un valore in sé. Più precisamente, se il rapporto tra cittadino e stato è di tipo puramente giuridico e, in quanto tale, universalistico (dal momento che le leggi valgono per tutti), il rapporto con la nazione è invece di tipo sentimentale ed emotivo, e quindi per sua natura privato, incapace di universalizzarsi. La nazione plasma l’agire morale in funzione di una appartenenza territoriale del tutto involontaria e inconsapevole. È ciò che chiamiamo “patria”.
Non esiste alcun obbligo morale che fa sì che io, per il semplice fatto di essere involontariamente nato qui e non altrove, debba necessariamente amare la mia patria e la mia nazione, preferendola e ponendola al di sopra di tutte le altre. Questa è una verità difficilmente controvertibile, almeno sul piano etico. E allora come spiegare gli slogan patriottici che sembrano andare tanto in voga nei nostri giorni? Come spiegare gli “America first” di Donald Trump o i “Prima gli italiani” di Giorgia Meloni? I richiami al sangue, alla purezza della razza e altre stramberie simili, per quanto possano destare preoccupazione (o senso del ridicolo?), sono buoni per il gossip politico da quattro soldi o per le chiacchiere da bar. Quel che mi pare si debba leggere dietro a questi rigurgiti nazionalistici è un meccanismo passivo-aggressivo di tipo securitario che, in un mondo sempre più globalizzato e interdipendente, serve a difendere e a mantenere determinati privilegi economici, culturali e sociali.
L’idea di nazione, cioè, è la maschera dietro la quale si nasconde, oggi, il principio di ragione coloniale.
Si potrebbe controbattere a tale affermazione sostenendo che la stagione della decolonizzazione, durante la quale si ottenne l’indipendenza di quelle che un tempo erano ex colonie e che oggi sono stati autonomi, è stata possibile proprio grazie alla spinta del nazionalismo: è proprio in virtù dell’idea di nazione, cioè, che si sono create le condizioni per una lotta decoloniale. Si tratta tuttavia, di una spinta che esaurisce la sua forza emancipatrice nel momento in cui consegue il proprio obiettivo. Il quale non ha, come contenuto concreto, la celebrazione della grandezza e della maestosità della patria, ma il conseguimento di una forma di governo meno tirannica e più libera, più attenta alle esigenze di autodeterminazione. Il motivo per il quale Siciliani, Toscani e Veneti, popoli così diversi tra loro per lingua, tradizioni e cultura, decisero di farsi inglobare dai Piemontesi non era perché nel profondo del loro animo si sentivano italiani, ma perché sembrava loro che in quel modo potessero cogliere un’opportunità di divenire padroni del loro destino (cfr. Zimmern, 1918). La costruzione di un sentimento di identità nazionale, l’appello al nazionalismo, è in realtà successivo al conseguimento dell’indipendenza, e si manifesta come “estetizzazione politica”. Parate, monumenti, altari della patria, militi ignoti: tutto un corredo autocelebrativo che ha la funzione di riempire un vuoto. L’idea di nazione è un vuoto a perdere: tutte le aspirazioni alla libertà e all’autodeterminazione che essa è in grado di catalizzare, si sgonfiano e si svuotano nel momento in cui la sua natura soltanto ideale – ideologica – si concretizza in uno stato.
La domanda a cui il pensiero decoloniale è chiamato a rispondere oggi (in un panorama politico caratterizzato dal conflitto fra interessi sovranazionali e reazioni sovraniste), e che suona come una sfida epocale, è allora la seguente: è possibile costruire una pratica di liberazione e di autodeterminazione che non abbia alcun legame ideologico con l’idea di nazione?
Bibliografia
Bonanate, L. (2011a), La guerra, Roma-Bari, Laterza;
¾ (2011b), Fare a meno della nazione, Bonanno, Acireale;
Chabod, F. (1961), L’idea di nazione, (n. e. 2021, a cura di A. Saitta, E. Sestan), Roma-Bari, Laterza;
Conti, F. (2021), Il sommo italiano. Dante e l’identità della nazione, Roma, Carocci;
Musiani, E. (2018), Faire une nation, Paris, Gallimard;
Roccucci, A. (2012), La costruzione dello stato-nazione in Italia, Roma, Viella;
Rokkan, S. (2002), State formation, nation-building and mass-politics in Europe. The theory of Stein Rokkan, (ed. by P. Flora) Oxford, Oxford University Press;
Rusconi, G. E. (1993), Se cessiamo di essere una nazione, Bologna, Il Mulino;
Tilly, C. (1984), La formazione degli stati nazionali nell’Europa Occidentale, Bologna, Il Mulino;
Zimmern, A. E. (1918), Nationality and Government, with other War-Time Essays, McBride & Co., New York.
dottore di ricerca in filosofia, insegnante e ricercatore indipendente. Ha pubblicato: Logica della disgregazione e storia critica delle idee. Uno studio a partire da Adorno (2020).