14 Minuti
Lo scorso 10 dicembre il quotidiano La Nuova Sardegna apriva a tutta pagina con un titolo di sicuro effetto: «Gli ambientalisti: sì a eolico e fotovoltaico». Il riferimento è ad un documento unitario delle associazioni Legambiente, WWF e FAI. L’articolo di spalla anticipa un breve redazionale di introduzione alla lunga intervista al presidente di Legambiente Stefano Ciafani, contenuta all’interno ed inizia così: «Fai, Legambiente e Wwf dicono sì alla possibilità di creare energia con eolico e fotovoltaico. Ma se fino a oggi la loro adesione era sembrata più teorica che pratica, ora dicono sì anche in aree potenzialmente sensibili, come il fotovoltaico nei centri storici».
Leggere un altro stralcio del focus redazionale sarà utile per inquadrare il problema:
«Si dissolve, salvo per un piccolo resistente zoccolo duro, il tabù ambientalista delle rinnovabili nemiche del paesaggio. Legambiente e Wwf hanno abbracciato già da qualche anno la causa delle energie pulite ma, a fare la differenza, è ora il Fondo per l’ambiente italiano (Fai) che si è affrancato dalla storica associazione Italia nostra rimasta assieme alla onlus Amici della Terra a combattere pale eoliche e pannelli fotovoltaici in nome della tutela del territorio».
Da queste poche righe introduttive, dalla scelta dei titoli (in prima pagina «Gli ambientalisti: sì a eolico e fotovoltaico» e a pagina 3 «Le rinnovabili salvano l’isola») emerge il discorso egemonico veicolato dal gruppo editoriale che esprime La Nuova Sardegna e da questo milieu di associazioni: l’ambientalismo è quello che dà spalla incondizionata a tutti i progetti relativi alla cosiddetta «rivoluzione energetica», senza fare distinguo, senza suscitare opposizione ambientale animando o sostenendo comitati e, soprattutto, quello che si astiene dal presentare i temutissimi ricorsi al TAR.
Chi avanza dubbi o critiche, per quanto puntuali e analitiche, chi fa emergere palesi contraddizioni e inquietanti zone d’ombra, viene non solo ricollocato nel campo dei riottosi avversari dell’inesorabile decorso della “transizione energetica”, ma soprattutto etichettato come nemico della Sardegna e dei sui abitanti, presentati, agli occhi dell’opinione pubblica, come desiderosi di usufruire delle straordinarie opportunità offerte dal nuovo volto del modernismo green. Chi osa esercitare la critica ai modi e ai volumi della cosiddetta “riconversione ecologica” e alla sua localizzazione selettiva nelle aree marginali dello Stato, a partire dalla Sardegna, viene descritto come patetico residuo passatista e posto alla gogna mediatica come nemico pubblico del lavoro, del progresso e del bene comune.
È una narrazione certamente non nuova. Nel documento di quello che potremmo ribattezzare ambientalismo della subalternità, subalternità green, o anche – riprendendo e declinando nel nostro contesto una potente immagina di Malcom X – ambientalismo da cortile, viene infatti integralmente recuperato un armamentario ideologico di vecchia e vecchissima data.
La mitologia del progresso inesorabile a cui è inutile opporsi con no reazionari e conservativi, della modernità salvifica a cui solo gli stolti e gli ultimi giapponesi possono invano resistere, dell’illuminismo tecnocratico a cui unicamente i disadattati e i pazzi possono replicare squadernando insensati «tabù», sono infatti le fondamenta della logica coloniale la quale ha, dall’Ottocento fino ai giorni nostri, accompagnato tutte le fasi salienti della colonizzazione dell’isola, dal disboscamento desertificante allo sfruttamento intensivo delle cave minerarie, fino alla rimozione della lingua sarda dal discorso pubblico, all’accettazione dell’occupazione militare, all’industrializzazione pesante e alla cementificazione selvaggia delle coste.
In questo articolo prenderemo in esame l’intervista di Ciafani perché rappresenta il modello archetipico della ragion coloniale. Perché, dietro il suo apparente carattere apodittico e sotto l’ostentata discontinuità con le ciminiere e l’inquinamento del passato, si cela in realtà una nuova edizione della logica coloniale, in piena continuità con i processi che, nel corso della storia della Sardegna sabauda, unitaria, fascista e repubblicana, hanno saccheggiato, impoverito e reso sempre più subalterna la comunità e il territorio dei sardi.
A scanso di equivoci e di letture faziose, voglio subito precisare che questo articolo non si oppone assolutamente né alle forme di produzione non fossile e nemmeno all’idea che in Sardegna sia possibile e giusto sfruttare sole, vento, moto ondoso e geotermia per produrre energia pulita, anche in gran quantità. Anzi, questo articolo vuole essere proprio un contributo a chi in Sardegna si batte contro tutte le produzioni inquinanti e per una sostanziale rivoluzione energetica, compatibile con il territorio e nel solco dell’interesse delle comunità che esprime. A questa prospettiva non si oppongono però soltanto le lobbies del carbone, del gas e gli sponsor del petrolio, ma anche il lògos autoritario implicito alla subalternità green, la quale non accetta alcun altro discorso al di fuori del campo in cui si propone-impone come unica opzione razionale, storicamente fondata e socialmente accettabile.
L’intervista a Ciafani è un documento assai significativo per comprendere le nuove dinamiche con cui si propone la ragion coloniale e vale la pena analizzarla, non tanto per decostruire tecnicamente la narrazione positivista di Stato, multinazionali e associazioni ambientaliste subalterne (altri lo hanno fatto con maggiori competenze delle mie), ma anche e soprattutto per far emergere come, nel solco del lògos che la anima, è possibile ritrovare – come fossero compendiate in una sorta di sinossi – tutte le narrazioni che hanno determinato storicamente la questione sarda intesa come questione subalterna.
Il ragionamento di Ciafani – intervistato da Roberto Petretto – ruota attorno ad un sillogismo insieme positivista e dispotico: dato che il principale pericolo è il riscaldamento globale, allora ogni strategia finalizzata ad abbassare, nell’immediato, l’emissione di gas serra è da accettare senza ulteriori condizioni:
«il paesaggio rischia di essere stravolto in maniera permanente dalla crisi climatica. Invece lo stravolgimento causato dall’installazione di impianti per la produzione di energie rinnovabili dura solo per 20 anni. Poi si può smontare tutto»
Il carattere vizioso del sillogismo, tipico dell’ambientalismo da cortile, emerge non appena si individuano specifiche aree che dovrebbero accettare incondizionatamente l’installazione di ciclopici impianti eolici e infinite distese di fotovoltaico e fotodinamico, in nome del bene comune. Ma perché proprio la Sardegna dovrebbe accettare di spalancare le porte ad ogni sorta di impianto, senza limiti e senza alcuna proporzione con il fabbisogno locale? A sostegno del sillogismo coloniale interviene il dispositivo della paura che si presenta però nella forma di una dialettica logico-razionale:
«Invece tra le regioni che rischiano di essere stravolte dal cambiamento climatico ci sono proprio quelle meridionali e le isole. So che questa discussione dura, asprissima, da anni. E che negli ultimi anni si è accesa particolarmente in Sardegna. Ma nel dibattito si omette di dire che l’isola, tra 20 anni, rischia di avere un paesaggio desertico. Per questo dobbiamo fare in modo che in Sardegna si possano fare tanti impianti (…)».
La narrazione a cui mette capo la subalternità green è chiara: di fronte al pericolo del riscaldamento globale che – in prospettiva – minaccia di desertificare e allagare la nostra stessa isola, è necessario sotterrare l’ascia di guerra della difesa del proprio territorio, della propria comunità e rinunciare alle proprie egoistiche ragioni per dimostrarsi accoglienti e disponibili verso la “rivoluzione energetica”, esattamente nelle modalità, nei tempi e alle condizioni a cui Stato e multinazionali la propongono-impongono.
In realtà quella che a primo acchito si presenta come una pura logica auto validante, difficile da discutere o mettere in mora, tradisce proprio su questo elemento geografico una prima, manifesta contraddizione.
Come si giustifica il passaggio dalle (giuste) premesse (il problema del riscaldamento globale è assolutamente serio ed è necessario ridurre le emissioni di gas serra), alla conclusione che il Mezzogiorno e le Isole e in particolare alcune aree (a partire dalla Sardegna) debbano aprire incondizionatamente le braccia ad ogni sorta di progetti imposti dall’alto? Parafrasando un recente articolo di Andria Pili[1], si potrebbe dire che la dinamica è quella di «esternalizzare» i costi della «rivoluzione energetica» su specifiche aree geografiche che, fino ad oggi, hanno subito i gravami di modelli economici esogeni profondamente traumatici.
Inizia ad apparire chiaro come la conclusione del ragionamento degli ambientalisti subalterni – che tanto piace ad una vasta schiera di capitani d’impresa famelici di contributi statali e di facili profitti sotto tutela e a relativi politici compiacenti – dimostra tutta la sua fallacia logica.
In un recente articolo, comparso lo scorso 15 dicembre su Il Fatto quotidiano[2], Linnea Nelli, Andrea Roventini e Maria Enrica Virgillito mettono in luce il fatto che «l’Europa è popolata da “zone di sacrificio”», cioè da aree geografiche destinate a sopportare tutti i costi delle produzioni inquinanti e della transizione energetica: «le asimmetrie non sono solo produttive e tra Paesi, ma anche territoriali all’interno dei Paesi» e ciò avviene anche a causa del fatto che «le comunità locali sono soggette al ricatto occupazione-salute». La precisazione degli autori dell’articolo risulta fondamentale e quindi è bene riportarla integralmente:
«Attuare politiche per la transizione ecologica è una necessità per tutti i Paesi. Ma se il processo avvenisse unicamente sotto il profilo produttivo, senza essere accompagnato da una transizione sociale che richiede interventi di politica economica, potrebbe esacerbare vulnerabilità e disuguaglianze esistenti. Perché la transizione ecologica sia giusta, occorre che un processo verso la neutralità climatica garantisca stabilità occupazionale, sostenibilità ambientale ed eguaglianza economica. (…)»
Segue un elenco di realtà geografiche tristemente note per essere in vetta alle statistiche epidemiologiche per quanto concerne patologie tipiche da inquinamento ambientale. Questi territori – glossano gli autori – «sono aree di deprivazione socio-materiale, che rischiano di restare indietro in assenza di riconversione produttiva, caratterizzati da spopolamento, disoccupazione e disparità di reddito che coesistono con irreparabili danni all’ambiente e alla salute».
La Sardegna – come avrà notato il lettore attento – rientra ampiamente nella descrizione di queste «aree di deprivazione», non solo per la sua storia di predazione, land grabbing, sfruttamento intensivo e inquinamento, ma anche per il suo presente di vastissime porzioni di territorio destinate, per decreto governativo e compiacenza degli ambientalisti da cortile, alla produzione energetica su vasta scala, a tutto beneficio di terzi.
Ma andiamo avanti.
Come tutti i discorsi integralisti e totalitari, anche quello di Ciafani ha bisogno di un nemico di paglia, vale a dire di un interlocutore posticcio e caricaturale, le cui tesi vengono ridotte all’assurdamente primitivo e grottesco e le cui motivazioni sono appiattite al livello di pulsioni irrazionali, ad interessi privati o a mere espressioni di un gioco delle parti a somma zero.
In questo modo le argomentazioni di amministratori locali, comitati, associazioni ambientaliste non convertite alla logica adamantina del progresso monodimensionale, sono ridotte a mero rumore di fondo emesso da patetiche figure condannate a gridare stereotipicamente «al lupo al lupo». Non ci sono ragioni per muovere glosse alla «rivoluzione energetica» che «se ben fatta, può permettere all’isola di mettere in campo un nuovo sistema di industrializzazione che sarebbe l’esatto opposto dei disastri degli ultimi decenni».
Siamo arrivati al nodo concettuale di maggior rilievo. La critica alle fasi precedenti della subalternità economica (disboscamento selvaggio, sfruttamento minerario, industrializzazione pesante) è solo apparente e assolve paradossalmente alla funzione di assicurarne la continuità.
Non si può dire che il rodato ingranaggio non faccia la sua figura, ma se andiamo a verificare, ad ogni tappa della subalternità economica della storia dei sardi, si è proceduto nel medesimo modo: criticare le storture dei meccanismi di sfruttamento economico del passato al fine di giustificare le nuove procedure di predazione ed estrazione coatta di valore nel presente.
La premessa di base della ragion coloniale verniciata da ambientalismo è questa: la Sardegna in passato è stata oggetto di sfruttamento e processi produttivi che l’hanno devastata e avvelenata.
Se ne conclude che, appunto perché in passato la Sardegna è stata sventrata da modelli industriali invasivi e devastanti, oggi l’isola e la sua comunità debbano rendersi disponibili, senza condizioni, all’installazione di mega impianti eolici e fotovoltaici, cioè ad una nuova monocultura eteronoma, eterodiretta e finalizzata alla realizzazione di valore per soggetti ed aree economiche terze, esattamente come nel passato.
Ma perché – e sta qua lo scandalo che la ragion coloniale non tollera – se la Sardegna in passato ha subito numerosi abusi e ha visto saccheggiati e depredati i suoi territori e i diritti delle sue popolazioni, oggi deve rendersi disponibile ad un nuovo corso di sfruttamento intensivo da parte di nuove produzioni monopolistiche che si candidano di fatto ad affiancare (per ora certo non a sostituire) – in piena continuità – le varie attività inquinanti del carbone e del petrolio?
Il problema di una transizione energetica che sia fondata sulle basi della giustizia e non della perpetuazione della violenza coloniale e della diseguaglianza tra popoli e nazioni sta al centro della riflessione di un prezioso contributo di Stefano Ferrante, comparso lo scorso 30 novembre 2022 su Eticaeconomia[3]:
«Per quanto riguarda il metodo, la crisi climatica che stiamo vivendo è il frutto dell’accumulazione di CO2 avvenuta in passato, di cui gli USA sono di gran lunga il paese più responsabile. Secondo alcune stime, dal 1750, gli USA hanno prodotto il 25% delle emissioni mondiali, quasi il doppio della Cina. L’Europa ne ha prodotte il 22%»
E ancora:
«La concentrazione di CO2 ha subito una forte accelerazione a partire dagli anni ’60 passando, nella fase in cui si sono impennate le emissioni pro capite sia degli USA sia dell’Europa, da circa 310 ppm al valore attuale di 417 ppm (nel periodo preindustriale era al di sotto di 278 ppm). Si immagini una famiglia nella quale il primogenito ha utilizzato tutto il patrimonio e che, nel momento in cui occorre rimborsare i creditori, chiede agli altri figli di rinunziare agli studi per ripagare il debito!»
Se trasliamo il discorso dal rapporto tra blocco atlantico e paesi ad economia emergente al rapporto tra nord Italia e Sardegna, il discorso fila coerentemente. Le disuguaglianze energetiche non riguardano infatti solo i rapporti tra Paesi, ma anche le dinamiche entro i Paesi tra aree a trazione industriale endogena e aree marginali ad economia esogena, impoverite e utilizzate come colonie interne o – come scriveva Gramsci a proposito della Sardegna – «colonie di sfruttamento».
Nel campo ambientalista è Stefano Deliperi, del Gruppo di intervento giuridico, a smontare e a decostruire la narrazione delle tesi ambientaliste subalterne di Legambiente, WWF e FAI e lo fa in due modi: avvalendosi della logica impietosa dei dati e proponendo un paradigma alternativo a quello della ragion coloniale che concepisce la terra di Sardegna come una gigantesca «zona sacrificale».
I numeri ci raccontano che riempire la Sardegna di campi eolici e fotovoltaici non contribuisce affatto a risolvere il problema del riscaldamento globale, non risponde all’interesse collettivo e soprattutto non porta benefici né alla Sardegna né ai sardi:
«In Sardegna, se fossero approvati tutti i progetti di centrali per la produzione di energia da fonti rinnovabili, vi sarebbe un’overdose di energia prodotta, pagata dallo Stato, ma inutilizzabile. Infatti, a oggi in Sardegna non esistono impianti di conservazione dell’energia prodotta. (…) In Sardegna, al 20 maggio 2021, risultavano presentate ben 21 istanze di pronuncia di compatibilità ambientale di competenza nazionale o regionale per altrettante centrali eoliche, per una potenza complessiva superiore a 1.600 MW, corrispondente a un assurdo incremento del 150% del già ingente comparto eolico “terrestre” isolano. Complessivamente dovrebbero esser interessati più di 10 mila ettari di boschi e terreni agricoli da un’ottantina di richieste di autorizzazioni per nuovi impianti fotovoltaici. Le istanze di connessione di nuovi impianti presentate a Terna s.p.a. (gestore della rete elettrica nazionale) al 31 agosto 2021 risultavano complessivamente pari a 5.464 MW di energia eolica + altri 10.098 MW di energia solare fotovoltaica, cioè 15.561 MW di nuova potenza da fonte rinnovabile, a cui devono sommarsi i tredici progetti per centrali eoliche offshore finora presentati, che dichiarano una potenza pari a 8.321 MW. In tutto sono 23.382 MW, cioè più di undici volte i 1.926 MW esistenti (1.054 MW di energia eolica + 872 di energia solare fotovoltaica, dati Terna, 2021)»[4]
Il disegno politico è dunque quello di incrementare del 150% il «già ingente comparto eolico “terrestre” isolano» e di sottrarre ai sardi ulteriori «10 mila ettari di boschi e terreni agricoli» al solo fine di permettere la realizzazione di ulteriori profitti sotto tutela alle multinazionali dell’energia e di trasformare la Sardegna in un’enorme piattaforma energetica ad uso e consumo del Settentrione.
Deliperi fa emergere con chiarezza come la ragion coloniale, verniciata da ambientalismo, metta completamente tra parentesi la «straordinaria ricchezza dei valori naturalistici, ambientali, paesaggistici e storico-culturali» del territorio, vale a dire il fatto che «il territorio non è un banale contenitore per centrali di produzione energetica da fonti più o meno realmente rinnovabili».
Non è un fatto di poco conto. L’asse Stato, multinazionali e ambientalisti da cortile minimizza il legame tra comunità e territorio, liquida le connessioni economiche, culturali e antropologiche come bazzecole di cui non è necessario curarsi, infine forclude le soggettività e le loro memorie in nome di una ragione sovrastante, universale e prevaricante.
Le alternative all’impiego di modalità energetiche rinnovabili ci sono, ma implicherebbero l’impiego di una logica differente, vale a dire l’adozione di un paradigma di tutt’altro tipo e infine il rispetto verso le soggettività, le memorie, le connessioni comunità-territorio che la ragion coloniale non può permettersi il lusso nemmeno di contemplare, pena lo sgretolamento di un mondo la cui voracità e violenza non si è mai fermata dal 1720 ad oggi (considerando il rapporto centro-periferia tra potere politico statale e Sardegna) e che gode di vitalità solo nella misura in cui schiaccia le alterità e le differenze e impone l’omologazione, la conformazione autoritaria, in ultima analisi la subalternità e l’accettazione di una sottomissione integrale e definitiva.
In Sardegna esistono esempi virtuosi (come l’esperienza delle comunità energetiche) che marciano controcorrente rispetto alla stringente logica dell’ambientalismo subalterno, ma che lamentano l’assoluta mancanza di sponde politiche, a tutti i livelli del potere statale. È il caso dell’esperienza del comune di Villanovaforru e del suo sindaco Maurizio Onnis la cui testimonianza è preziosa per comprendere, come tra le ciminiere del passato e le monoculture straniere dell’eolico e del fotovoltaico del presente, è possibile una terza via di sovranità energetica, nel rispetto e nell’interesse delle comunità e dei territori[5].
Al fine di contrastare la narrazione tossica veicolata dalla ragion coloniale in Sardegna è nata anche ADES (Assemblea per la democrazia energetica). Questo movimento, oltre a proporre un «modello di produzione e distribuzione decentralizzato, diffuso e democratico, basato sulle comunità energetiche» fa emergere anche un aspetto che la ragion coloniale oblitera del tutto, perché incompatibile con le premesse liberiste e consumiste su cui si fonda e cioè la non più prorogabile necessità di ridurre i consumi e di dare corpo ad un sistematico e strutturale «efficientamento energetico», cioè al «risparmio delle risorse e al riciclo»[6].
Scrive ancora Deliperi:
«Cosa ben diversa sarebbe se fosse lo Stato a pianificare in base ai reali fabbisogni energetici le aree a mare e a terra dove installare gli impianti eolici e fotovoltaici e, dopo coinvolgimento di Regioni ed Enti locali e svolgimento delle procedure di valutazione ambientale strategica (V.A.S.), mettesse a bando di gara i siti al migliore offerente per realizzazione, gestione e rimozione al termine del ciclo vitale degli impianti di produzione energetica»[7].
Una prospettiva, quella della democrazia e della sovranità energetica nel segno del protagonismo delle comunità, semplicemente inconcepibile per la ragion coloniale che, come abbiamo avuto modo di vedere, si presenta come unica opzione percorribile in antitesi alle anticaglie e le storture del passato.
A questo punto è utile segnalare un’ulteriore mitopoiesi della ragion coloniale che emerge dal discorso di Ciafani:
«L’atteggiamento di demonizzazione le rinnovabili non aiuta la Sardegna, che potrebbe essere la regione maggiormente beneficiata da una rivoluzione energetica. Se ben fatta, può permettere all’isola di mettere in campo nuovo sistema industrializzazione che sarebbe l’esatto opposto dei disastri degli ultimi decenni»
E ancora:
«La rivoluzione energetica permette di avere un tessuto produttivo per progettare, realizzare, mantenere gli impianti diffuso su tutto il territorio»
Se sostituiamo i sostantivi «rinnovabili» e «rivoluzione energetica» con «rinascita», «industria» e «modernizzazione» appare più chiaro come la contrapposizione tra la logica sottesa alla “rivoluzione energetica” e la narrazione alla base della “rinascita” di rovelliana memoria sia solo apparente.
Ciò risulta ancora più chiaro se leggiamo attentamente il seguente passaggio:
«Con le rinnovabili si mette in campo un percorso che crea nuovi posti di lavoro. Molti figli di Sardegna non dovranno più andare a studiare o a lavorare fuori dalla Sardegna. Anzi, in futuro saranno i figli del nord a venire in Sardegna, si invertiranno le migrazioni. Ci sarà maggior lavoro sul fronte rinnovabili».
Neppure la retorica dei posti di lavoro, a corredo dell’accettazione di una stringente necessità evolutiva dell’incessante e indiscutibile progresso, ci è affatto nuova. Come in passato i diversi modelli estrattivisti ed esogeni, tipici dell’industrializzazione pesante, sono stati accompagnati dalla chimera della crescita economica, della creazione di posti di lavoro, della formazione della classe operaia, così la presente “rivoluzione energetica” si propone al subalterno sardo come un argine all’emigrazione, allo spopolamento, alla povertà e come imperdibile occasione di emancipazione storica da cogliere senza tante storie.
La logica della «rivoluzione energetica» – esattamente come le precedenti figure della ragion coloniale implicite nei diversi modelli economici, sociali e culturali imposti verticalmente – si dà nella forma dell’aut-aut. L’alternativa però – ancora una volta – è soltanto apparente e si risolve in effetti nel «dover essere» della ragion coloniale, nel carattere necessitato e impositivo della razionalità coercitiva ad una sola dimensione: quella proposta-imposta dalle centrali metropolitane e dalle élites sistemiche le quali, un tempo, proponevano-imponevano le chiudende, il taglio dei boschi, il sistema minerario, l’impiego esclusivo della lingua italiana, i complessi industriali di trasformazione degli idrocarburi e la cementificazione delle coste e oggi – utilizzando le medesime mitologie – giustificano la stringente necessità di trasformare la Sardegna (proprio la Sardegna!) in un gigantesco hub energetico, nella piena disponibilità delle regioni ricche del nord dello Stato italiano.
Per ora gli ambientalisti della subalternità acconsentono alla costruzione di numerosi e pantagruelici campi eolici e fotovoltaici, integralmente in mano a multinazionali, del tutto avulsi dal territorio e spesso edificati nelle vicinanze – quando non proprio sopra – aree archeologiche o di elevato impatto culturale e naturalistico, senza rispettare nemmeno le vigenti leggi statali e regionali in materia di impatto ambientale, grazie alla legislazione d’emergenza varata dal Governo Draghi (appoggiato – è bene ricordarlo – da tutti i partiti presenti in Parlamento tranne FdI e SI) e integralmente confermata dal Governo Meloni (a trazione FdI).
Va precisato però che, con la medesima logica e grazie alle stesse argomentazioni, non esiste limite all’impiego del territorio sardo, ridotto a «zona sacrificale», come capitale energetico da sfruttare in nome dell’«interesse nazionale», come risposta alla «crisi energetica» conseguente alla guerra in Ucraina o appunto come risorsa strategica necessaria a contrastare il riscaldamento globale. Oggi eolico e fotovoltaico selvaggi e al di sopra di ogni regola, domani, con tutta probabilità, sblocco delle centrali nucleari. Se applichiamo coerentemente il sillogismo coloniale non esistono limiti, né appunto «tabù» capaci di contenimento.
Una volta passato infatti il concetto che, di fronte al male assoluto del riscaldamento globale o alla grave penuria energetica dovuta alle ritorsioni della Federazione russa alle sanzioni economiche da parte europea e italiana, si può e si deve accettare tutto, non tarderà a materializzarsi anche la prospettiva della costruzione in Sardegna di diverse centrali nucleari – fra l’altro già paventate nel recente passato da esponenti governativi appartenenti trasversalmente a diverse aree politiche.
L’utilizzo subalterno di un intero territorio a tutto beneficio di terzi viene presentato non solo come scelta green per arginare il riscaldamento globale e come straordinaria occasione di lavoro, ma anche come possibilità di emancipazione e segno di discontinuità storica con un passato di prevaricazioni e scelte impositive e disastrose:
«La Sardegna può diventare un laboratorio che può mostrare al mondo come si abbandonano le fonti fossili. Ci sono stati errori nel passato, si deve evitare di ripeterli, senza demonizzare ma governando il processo. Cosa che la Regione non sta facendo».
La prospettiva di «governare il processo» assume ovviamente mera funzione retorica, dato l’impianto legislativo d’emergenza in vigore. La scelta si dà nella forma dell’aut-aut ma in termini del tutto posticci. Da una parte la libertà dell’accettazione necessaria e logica del «processo» e della sua forza mitopoietica, dall’altra l’ottusa refrattarietà che sconfina nella mancanza di logica e quindi nella follia o nella malizia di interessi privati. Lo sguardo della ragion coloniale sui suoi critici è quello della messa al bando dal consesso civile e – in ultimo – della loro psichiatrizzazione senza appello.
La medesima logica agisce per il Tyrrhenian Link che collegherà la Sicilia con la Sardegna e la penisola italica attraverso un doppio cavo sottomarino con circa 970 chilometri di lunghezza e 1000 MW di potenza. Opporsi o comunque sollevare critiche verso un’infrastruttura, pensata esplicitamente per condurre quanta più energia possibile prodotta nell’isola verso la rete statale e garantire così una fonte continua e a basso costo di energia per il sistema industriale italiano ed europeo, è considerata puro esercizio di irrazionalità:
«È importante che l’isola si colleghi il Tyrrhenian Link, per il quale si sta facendo una polemica incomprensibile. È un cavo invisibile che permetterà alla Regione di essere collegata alla rete nazionale, permettendole di spegnere le centrali a carbone. Chi urla contro Tyrrhenian vuole mantenere in piedi centrali a carbone. Scelta legittima, per carità, ma suicida».
Questo è un passaggio dirimente per comprendere il dispositivo che agisce ogni volta che entra in gioco la ragion coloniale. È possibile criticare il Tyrrhenian Link solo se si abbraccia il passato, il carbone, la produzione da fonti fossili. L’opposizione ad un’opera di servitù energetica è «legittima» (l’aspetto formale della democrazia è salvo!), ma «suicida». Ciò significa che solo gli stolti e gli ultimi giapponesi possono opporsi al decorso naturale del progresso e della storia. Per la Sardegna accedere alla modernità significa accettare dunque di diventare una piattaforma energetica, del tutto dipendente da piani industriali ed energetici che la contemplano come mero fornitore di energia a basso costo in regime di monopolio coloniale, come un tempo lo era di legname, minerali e semilavorati. Al di fuori di questa prospettiva non ci sono altre direttrici di sviluppo, ma unicamente la barbarie, la follia, il suicidio.
Ancora una volta la discontinuità della ragion coloniale con il passato tradisce tutta la sua inconsistenza.
L’intervista a Ciafani si è rivelato un documento preziosissimo per comprendere il dispositivo della ragion coloniale insita nella narrazione della «rivoluzione energetica». Essa si impone nei termini di un imperativo categorico, insieme gnoseologico, etico ed economico, esattamente come alla fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento apparivano dominanti altri modelli, ultimo dei quali quello fabbrichista, a tutto discapito di pastorizia, agricoltura, artigianato e prospettive industriali alternative rispetto al modello verticale ed autoritario imposto da Stato e grande capitale sotto tutela.
In un articolo dello scorso 8 dicembre comparso su Comune.info[8], Andrea Staid mette bene in luce il nesso tra catastrofe ambientale e colonialismo.
La tesi di Staid è che la visione antropocentrica «che separa l’umanità dalla natura e che pone homo sapiens come superiore e quindi dominatore di tutto quello che lo circonda» – nata con l’umanesimo e diffusa globalmente con l’espansione coloniale della civiltà europea, ha irreversibilmente modificato la cosmovisione dei popoli che invece mantenevano un cordone ombelicale con la natura.
Ecco quali sono gli effetti – secondo l’autore – di questo scontro tra Weltanschauung così differenti:
«Il colonialismo è stato, ed è tuttora, una politica economica di furto ed espansione, ma non solo: è anche la distruzione della memoria dei luoghi, del tempo, delle lingue che vengono sradicate, delle comunità e dei modi di vita che vengono cancellati»
Se nel testo ci si riferisce alle culture indigene a cui il sistema coloniale di matrice europea ha violentemente imposto la sua visione della natura, il passaggio che segue non può che parlare anche alle comunità e ai movimenti della nostra isola, impegnati a resistere contro l’attuale colonizzazione energetica e a decostruire le accattivanti ma ingannevoli argomentazioni dei loro alfieri “ambientalisti”:
«Il colonialismo ha plasmato anche il modo di concepire la conservazione della natura e l’ecologia. Gli sforzi per proteggere la natura, particolarmente intensi alla fine del XIX secolo, si trasformarono in nuove opportunità di controllo coloniale. Le aree di “natura incontaminata”, che in seguito sarebbero diventate parchi nazionali, furono svuotate degli abitanti, mentre le terre al di fuori di queste riserve furono destinate all’estrazione intensiva. La natura ancora una volta vista come oggetto, in questo caso da “preservare”»
Anche in Sardegna, come in diversi territori assoggettati dal colonialismo e dominati dalla ferrea logica della sua ragione, abbiamo subito uno sradicamento economico e antropologico di immani proporzioni che ha compromesso – spesso irreversibilmente – interi ecosistemi e gli equilibri comunitari che su di essi si basavano, in nome di un modello modernizzante, centralista e metropolitano fondato su alte emissioni e produzione lineare. Oggi si vuole far passare l’idea che, per fronteggiare la non sostenibilità di quel modello – che i sardi e tanti altri popoli hanno subito – la Sardegna debba offrirsi come «laboratorio» ecologista, per la produzione di energia pulita, senza ovviamente mettere minimamente in discussione né il carattere lineare e consumista del modello economico dominante e senza avere alcun controllo sulle modalità e finalità della sua produzione verniciata di verde.
Sono da sposare dunque le conclusioni a cui giunge Staid sulla necessità di costruire un «approccio ecologista decoloniale», a partire dalla decolonizzazione dell’ambientalismo:
«Dobbiamo fare i conti con tutto questo e comprendere l’importanza di un approccio ecologista decoloniale, che ci porti a capire che il problema non è solo il cambiamento climatico, o meglio, che se stiamo vivendo nell’era dell’Antropocene è anche e soprattutto a causa di un sistema coloniale, razzista, patriarcale e antropocentrico che è stato imposto a gran parte del mondo dall’Europa attraverso un violento processo di colonizzazione».
Se si prescinde da questo approccio continueremo a subire la volontà e la logica altrui, cioè la volontà e la logica coloniale di sempre, senza alcuna possibilità di emancipazione e giustizia e – in ultima istanza – senza diventare protagonisti di alcuna reale rivoluzione energetica ed ecologica.
[1] Andria Pili, Diseguaglianza e inquinamento ambientale, Eticaeconomia, n. 177/2022; Pili nell’articolo parla di «esternalizzazione dell’inquinamento» a proposito dello studio del rapporto tra diseguaglianza di reddito e riscaldamento globale e delle ragioni per le quali «una distribuzione più diseguale del reddito entro e tra i Paesi peggiori le emissioni inquinanti di gas serra (in particolare CO2)». (link: https://eticaeconomia.it/diseguaglianza-e-inquinamento-ambientale/ )
[2] Andrea Roventini e Maria Enrica Virgillito, Nuova economia ok, ma l’inquinamento?, Il Fatto quotidiano del 15 dicembre 2022 (link: https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/12/15/nuova-economia-ok-ma-linquinamento/6906055/ )
[3] Stefano Ferrante, Una complessa transizione energetica, Eticaeconomia, n. 183/2022, (link: https://eticaeconomia.it/una-complessa-transizione-energetica/ )
[4] Stefano Deliperi, Il territorio non è un banale contenitore per centrali da fonti rinnovabili, ( link: https://gruppodinterventogiuridicoweb.com/2022/12/11/il-territorio-non-e-un-banale-contenitore-per-centrali-da-fonti-rinnovabili/#:~:text=Le%20associazioni%20ambientaliste%20FAI%2C%20Legambiente,di%20l%C3%A0%20della%20terminologia%20accattivante )
[5] Comunità energetiche e lungaggini burocratiche. Intervista a Maurizio Onnis, S’Indipendente ( link: https://www.sindipendente.com/blog/comunita-energetiche-e-lungaggini-burocratiche-intervista-a-maurizio-onnis/ )
[6] (Link: https://www.ilsardingtonpost.it/new/attualita/151-salute-ambiente/2045-primi-passi-di-ades-l-assemblea-per-la-democrazia-energetica-in-sardegna )
[7] Stefano Deliperi, Il territorio non è un banale contenitore per centrali da fonti rinnovabili
[8] Andrea Staid, Cosmovisioni che non sappiamo vedere, Comune.info, 8 dicembre 2022 (link: https://comune-info.net/cosmovisioni-che-non-sappiamo-vedere/ )
è dottore di ricerca in filosofia alla Scuola Normale Superiore di Pisa, attivista politico, già portavoce e tra i fondatori dell’organizzazione A Manca pro s’Indipendentzia. Insegna filosofia e storia a Sassari. Ha pubblicato Falce e pugnale. Per un socialismo di liberazione nazionale (2019).