MESTIZA Y ABIGARRADA: FILOSOFIA DECOLONIALE COME FILOSOFIA DI FRONTIERA

di Stefania Monti

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Oltre la linea abissale di cui scrisse il sociologo portoghese Boaventura De Sousa Santos nel suo Epistemologie del Sud, innumerevoli diversità epistemologiche (intese come differenti processi di produzione e validazione della conoscenza)i sono rimaste soffocate dal giogo opprimente del colonialismo occidentale, il quale ha perimetrato l’ordine epistemologico del proprio mondo con la pretesa di relegare nello spazio separato da un abisso ogni alterità, condannandola così all’oblio. Una tale violenza culturale ha permesso all’Occidente di riplasmare la coscienza intellettuale delle popolazioni subalterne; alla conquista delle terre e allo sterminio fisico, si è così affiancato un genocidio epistemologico. Questo rapporto di dominio ha concesso di apporre il suggello della legittimità al paradigma epistemologico occidentale, mentre ciò che se ne distanzia si configura come un insieme di modalità conoscitive amorfe marginalizzate in terre del pensiero talmente distanti da risultare inesistenti.

In questo complicato contesto, la questione riguardante una formulazione concettuale davvero efficace per il pensiero decoloniale rimane centrale. La soggettività subalterna necessita delle parole giuste per articolare il discorso della sua emancipazione con una sua propria voce, deve attraversare la cappa oppressiva della colonizzazione che offusca il linguaggio e il pensiero, infiltratasi attraverso la soppressione delle lingue native e conseguenzialmente dei sistemi conoscitivi che sono in grado di veicolare. Questa ricerca del pensiero decoloniale deve essere primariamente una ricerca linguistica, una ricerca che sappia illuminare i ricchi significati di parole appartenenti a lingue marginalizzate e spesso quasi completamente dimenticate. È proprio attraverso la riappropriazione del valore espressivo di una lingua sociologicamente umiliata e forzata al silenzio che è possibile interpretare le istanze del pensiero decoloniale con la determinazione necessaria per scavalcare la linea abissale. Attraverso questa pratica è possibile attingere a sacche di resistenza nascoste nel cuore stesso del mondo colonizzato, le quali spesso contengono, come l’esperienza filosofica decoloniale ha dimostrato, gli strumenti intellettuali necessari a sovvertire le dinamiche di dominio e a recidere il filo spinato posto da un’epistemologia conquistatrice al fine di universalizzarsi. Non si tratta solo di contrapporre un sistema conoscitivo alternativo a quello dominante quindi, ma di negare la stessa validità del concetto di epistemologiaii. Rifiutare l’idea di un edificio epistemologico, di sistemi conoscitivi in lotta, è il primo passo verso la realizzazione di un’autentica pluralità dei saperi e dei processi di pensieroiii. Il tentativo da parte del pensiero decoloniale di offrire un’esegesi della realtà dei rapporti di dominio attraverso la riscoperta delle lingue che hanno subito un processo di cancellazione, permette alla soggettività subalterna di affermare l’esistenza di un pensiero differente e il suo valore, senza trasformarlo in un sistema integro e puro, il quale avrebbe a sua volta un effetto omogenizzante nei confronti della complessità del reale. Alcune di queste lingue infatti, presentano vari presupposti per un pensiero dell’ et-et e non dell’aut-aut, un pensiero che affondi le sue radici nella mescolanza.

A mettere in evidenza questi aspetti sono alcune delle coscienze più vigili del pensiero decoloniale contemporaneo come Silvia Rivera Cusicanqui e Gloria Anzaldúa. La prima, sociologa boliviana di origine aymara, si è applicata allo studio dell’omonima lingua india facente parte del ceppo andino. Alcune parole di questa lingua si sono rivelate dotate di una dirompente forza ermeneutica che l’autrice ha saputo valorizzare appieno nell’elaborazione della teoria e dell’organizzazione delle pratiche decoloniali, come sottolinea anche M. Scaramucci nel suo articolo dedicato alle modalità di comunicazione dell’emergenza decolonialeiv. Uno di questi termini dà il titolo all’opera: CH´IXINAKAX UTXIWA. Una reflexión sobre prácticas y discursos descolonizadores. La parola aymara ch’ixi è fondamentale nella riflessione di Rivera Cusicanqui, il suo significato è quello della coesistenza tra nero e bianco, rapporto dialettico che non si concilia mai nella realizzazione di una sintesi finale. ch’ixi esprime nella maniera più profonda la realtà mista che caratterizza la società andina, laddove nero e bianco si mescolano senza fondersi, laddove sarebbe artificioso e deleterio assumere la cultura india come un blocco unitario rigidamente codificato, veicolo di un’identità originaria senza alcuna relazione col reale, in ultima analisi oggetto di una essenzializzazione che riproduce per certi versi le dinamiche del potere coloniale.

Por eso, me considero ch’ixi, y considero a ésta la traducción más adecuada de la mezcla abigarrada que somos las y los llamados mestizas y mestizos. La palabra ch’ixi tiene diversas connotaciones: es un color producto de la yuxtaposición, en pequeños puntos o manchas, de dos colores opuestos o contrastados: el blanco y el negro, el rojo y el verde, etc. Es ese gris jaspeado resultante de la mezcla imperceptible del blanco y el negro, que se confunden para la percepción sin nunca mezclarse del todo.v

Trovare le parole per interpretare la realtà andina del mestizaje è l’unico modo per rifiutare i processi di mistificazione che creano dicotomie culturali artificiali e che il dominio culturale occidentale ha utilizzato per tracciare il suo confine abissale. Solamente attraverso questa attenta ricerca delle giuste parole è possibile intraprendere anche pratiche decoloniali coerenti con la teoria e non piuttosto complici di politiche volte al mantenimento della paralisi del dominio, le quali agiscono attraverso la neutralizzazione della forza attuale della riflessione della collettività oppressa che lotta per la propria liberazione. L’efficacia della decolonizzazione risiede proprio nei valori comunicati dal pensiero ch’ixi, che Rivera Cusicanqui definisce come pensiero dell’abigarramiento, un pensiero screziato e impuro.

El pensamiento descolonizador que nos permitirá construir esta Bolivia renovada, genuinamente multicultural y descolonizada, parte de la afirmación de ese nosotros bilingue, abigarrado y ch’ixi, que se proyecta como cultura, teoría, epistemología, política de estado y también como definición nueva del bienestar y el “desarrollo”.vi

La seconda autrice, Gloria Anzaldúa, teorica del pensiero decoloniale e del femminismo, oltre che poetessa, affronta tematiche decisamente affini a quelle di Rivera Cusicanqui all’interno del suo capolavoro Terre di confine/La frontera. La nuova mestiza. Anzaldúa è una pensatrice chicana, il suo mondo è quello del confine tra il Messico e gli Stati Uniti, un Texas che non conosce cesure nette né dal punto di vista della lingua né dal punto di vista delle tradizioni. La condizione del mestizaje costituisce il fulcro del lavoro di Anzaldúa, la quale si fa interprete di una realtà rinnegata dalla rappresentazione ufficiale della società statunitense da una parte, col suo tentativo di forzare l’omologazione linguistica e culturale dei chicani, così come dai fautori di un’identità latina che disconosce gli elementi angli che dei chicani sono propri. In un tale contesto si dimostra particolarmente complicato il tentativo di dare forma a una coscienza chicana, dare dignità a una soggettività che parla una lingua che non è spagnolo né inglese, ma spagnolo e inglese assieme, e nella quale alcuni dei termini che si sarebbero potuti afferire alla versione standard di una delle due lingue hanno invece assunto forme e pronunce differenti. I Chicani rappresentano la soggettività collettiva che abita la frontiera, l’incarnazione del superamento dell’arbitrario confine stabilito dal potere coloniale. Anzaldúa è un’intellettuale che tocca il confine non solo fisicamente, nell’atto di abitarlo come territorio, ma interpreta la sua soggettività come attraversadavii, secondo i molteplici significati che è possibile attribuire a questo aggettivo. Attraversada come soggetto donna, queer, mezzosangue india e angla. Non c’è barriera che non venga messa in discussione, fisica e psicologica. La lotta deve essere combattuta contro l’oppressione coloniale e il patriarcato bianco ma anche contro il patriarcato indio che ha a sua volta negato alla donna la sua voce. L’ambiguità non risolta, il dilemma non pacificato, la condizione del mestizaje è espressa dall’autrice col termine nahuatl di Nepantla: lacerata tra più vieviii. Ancora una volta è una lingua india a offrire la concettualità necessaria ad intepretare in senso rivoluzionario il reale. Questo tipo di soggettività intermedia ed eterogenea riguarda anche molte figure femminili appartenenti alla mitologia e alla storia messicana, delle quali Anzaldúa mette in luce gli aspetti che possono essere letti in chiave femminista e insurrezionale, oscurati e distorti dalla narrazione ufficiale del patriarcato.

Perciò, non datemi i vostri princìpi e le vostre leggi. Non datemi i vostri tiepidi dèi. Ciò che voglio è fare i conti con tutte e tre le culture- bianca, messicana, indiana. Voglio la libertà di incidere e cesellare il mio viso, di arrestare il sangue con la cenere, di modellare i miei dèi con le mie interiora. E se tornare a casa mi è negato, allora devo alzarmi per reclamare il mio spazio, costruendo una nuova cultura – una cultura mestiza – col mio legname, i miei mattoni e il mio mortaio e la mia architettura femminista.ix

Anzaldúa esplicita l’idea del mestizaje nella stessa modalità di scrittura della sua opera, non classificabile secondo categorie prestabilite, dove poesia e prosa si mescolano continuamente. Il suo tentativo è quello di tracciare la mappa di una cultura emancipata dall’oppressione esterna, la quale tenta di cancellare le ambiguità e sciogliere le contraddizioni a vantaggio di un’identità purificata e rassicurante, scegliendo invece la rappresentazione autonoma di una soggettività composita, attraverso una scrittura che dia conto della storia che l’ha costituita, dei dilemmi che la abitano nella forma di opposizioni e antinomie. Una scrittura che non cela l’amasamiento (impasto) che caratterizza le mestizas e i mestizos è in grado di riconoscere tutte le componenti che fanno parte della loro realtà e di poterle scomporre e ricomporre per concepire una cultura terza, una cultura di frontiera, che rifiuta la divisione netta e il confine, inclusiva e plurale, una cultura decoloniale. L’autrice definisce la sua scrittura come il prodotto della mano isquierda, la mancina, la mano che scrive per riportare a galla la soggettività delle minoranze razzializzate e misconosciute, quelle che parlano una lingua mista, le soggettività queer, contaminate, rinnegate, impure, coloro che abitano al crocevia di tutte le stradex.

Sono senza cultura perché, in quanto femminista, sfido le credenze collettive culturali/religiose di origine maschile tanto degli indo-ispanici quanto degli anglo; e tuttavia sono colta perché partecipo alla creazione di un’ulteriore cultura, di una nuova storia che spieghi il mondo e la nostra presenza in esso, di un nuovo sistema di valori composto di immagini e simboli che ci connettono le une alle altre e al pianeta. Soy un amasamiento, sono un atto d’impastamento, di unione e di congiunzione, da cui ha preso forma una creatura che appartiene sia al buio, sia alla luce, ma anche una creatura che mette in discussione le definizioni di luce e buio, e conferisce loro nuovi significati.xi

Prima di questo testo, pubblicato nel 1987, Anzaldúa nel 1981 curò assieme a Cherríe Moriaga l’antologia di scritti femministi This Bridge Called Me Back: writings by radical women of color. Nel capitolo intitolato Speaking in Tongues. The Third World Woman Writer, Anzaldúa chiarifica tutte le difficoltà di poter esercitare una scrittura resistente, in grado di esprimere una voce libera dal condizionamento coloniale e patriarcale, ma anche le possibilità emancipatorie che questa scrittura mestiza di frontiera è in grado di offrire:

I write to record what others erase when I speak, to rewrite the stories others have miswritten about me, about you. To become more intimate with myself and you. To discover myself, to preserve myself, to make myself, to achieve self-autonomy. To dispel the myths that I am a mad prophet or a poor suffering soul.xii

Note:

i M. Scaramucci, Ch’ixi, Qhipnayra, Nkali: modi di dire l’emergenza decoloniale, in: Altre Modernità, N. 16, Milano, Università degli studi di Milano, 2016, p. 149.

ii B. De Sousa Santos, M. P. Meneses (a cura di), Epistemologias do Sul, Coimbra 2009, p. 45 sg.

iii M. Scaramucci, Ch’ixi, Qhipnayra, Nkali: modi di dire l’emergenza decoloniale, cit., p. 148 sgg.

iv Ibid., p. 152.

v S. Rivera Cusicanqui, CH´IXINAKAX UTXIWA. Una reflexión sobre prácticas y discursos descolonizadores, Buenos Aires 2010, p. 69.

vi Ibid., p. 73. vii G. Anzaldúa, Terre di confine/La frontera. La nuova mestiza, Firenze 2022, p.22.

viii Ibid., p. 106.

ix Ibid., p. 43.

x Ibid., postfazione a cura di P. Zaccaria, p. 287.

xi Ibid., p. 109 sg. xii G. Anzaldúa, C. Moriaga (edited by), This Bridge Called Me Back: writings by radical women of color, Berkeley 2002, p. 187.

Stefania Monti

Stefania Monti

Laureata in scienze storiche e filosofiche con una tesi su Walter Benjamin. I suoi principali interessi vertono sul pensiero ebraico del Novecento e sulla teoria della letteratura.