IL LUOGO TERZO TRA GEOGRAFIA E LETTERATURA: LA SARDEGNA SOTTO IL SEGNO DI SERGIO ATZENI

di Edoardo Mantega

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“Quando mi scopro a giocare
con pensieri di morte
dico: È l’aria di Torino.
E mi rassereno.
Non è colpa mia.
È colpa del demonio
che dicono aliti sulla città
e abbia spinto Salgari
e Pavese a solitari addii
nonché Nietzsche,
più originale,
a baciare piangendo
il muso di un cavallo ignoto.”[1]

Quando vengono stilati questi versi dal sapore amaro Sergio Atzeni vive a Torino, è il 1994 e ha scelto la capitale piemontese come luogo di residenza. A Torino ha casa Einaudi, per cui sarà traduttore ma, soprattutto, nella città piemontese gli è possibile quella sofferta separazione dai luoghi “propri” che ne consente poi la riscrittura. In merito a questo punto, una riflessione di Italo Calvino, riferita a Parigi: “Finora questa città non compare nelle cose che scrivo. Forse per poter scrivere di Parigi dovrei staccarmene, esserne lontano: se è vero che si scrive sempre partendo da una mancanza, da un’assenza”[2]. Così per Atzeni a Torino sembra finalmente riuscire quella stessa operazione dello scrivere per sé e per gli altri, come in più occasioni l’autore afferma. Nonostante l’ambientazione alpina di due racconti, in effetti, il resto degli scritti ha come luogo d’elezione l’isola.

Ma che isola è quella raccontata da Sergio Atzeni?

Non sono poche le storie e gli intrecci dei luoghi e delle letterature nel Novecento italiano, e, per iniziare a pensare criticamente questa nostra letteratura insulare, al fine di comprendere poi l’approccio atzeniano, potremmo citare un esempio che ci è più che prossimo. Basti pensare, infatti, a come Bertrand Westphal restituisce questo rapporto tra letteratura e luogo nella prima delle due maggiori isole italiane:

“Dai tempi di Federico II nel Duecento, la Sicilia aveva cessato di dare alla luce grandi scrittori, nonostante fosse stata descritta da alcuni sporadici racconti. Per Goethe, ma ancora di più per il classicista Denon, quella terra era come depauperata di ogni connotazione d’attualità, inchiodata per sempre alla sua immagine antica. In seguito, la Sicilia è stata oggetto di narrazioni molteplici (…) Essa era diventata nel frattempo uno spazio connotato dalle opere prestigiose di Verga e dei premi Nobel Pirandello e Quasimodo, di Vittorini e Brancati, di Tomasi di Lampedusa e Sciascia, di Bufalino e altri ancora”.

E cosa diventa un luogo, che è mutato in luogo letterario, agli occhi di chi lo vuole cogliere? L’essenza identitaria di un luogo diventa pluralità d’intenti e inesauribile fucina di creazione e ricreazione. È quel luogo terzo che viene a crearsi come nuovo spazio comune, ri-simulato, generato dal concorrere incessante di rappresentazioni diverse di un comune spazio di riferimento. È importante dire nell’immediato qualcosa di più sulla natura del rapporto letteratura/mondo, e sulle posizioni avanguardistiche degli studi postcoloniali.

Leggiamo infatti:

“è la postura tipica dell’occidentale che, ritenendo l’universo letterario e quello spaziale due entità stabili e definite, è convinto di poterle distinguere l’uno dall’altro a colpo sicuro. I Postcolonial studies hanno tuttavia mostrato come questo iato si relativizzi proprio nell’ambito di culture considerate periferiche. (…) In ambito europeo, si è assistito a una proliferazione di opere letterarie, o a dominante letteraria, chiamate a diffondere una geografia alternativa. Si è tornati così ad interessarsi a regioni dimenticate…”[3]

Non è forse la Sardegna raccontata da Atzeni un luogo periferico? Torna alla mente il suo definirsi “scrittore medio” e dire, tuttavia, che la Sardegna vada raccontata tutta. Non sembra esserci differenza tra il mondo letterario e quello geografico isolano in Sergio Atzeni, almeno nelle attestazioni di volontà del volerlo raccontare, di dire l’isola in funzione geocentrica e geo centrata, referenziale. E questa “lontananza”, questo carattere periferico, questa che diventa volontà politica (propria, appunto, di paesi ex-coloniali, tra i quali la Sardegna non faticherebbe una buona figura) viene fuori negli scritti atzeniani tanto quanto nei rapporti di solidale stima con alcuni scrittori postcoloniali. Non è da meno il ricordo del rapporto tra Patrick Chamoiseau e Sergio Atzeni, distanti geograficamente eppure così armoniosi nella condivisione di un universo letterario, geografico, politico.

“Credo che questo sia il contributo che ogni etnia regionale dovrebbe portare. Alcuni scrittori sono stati grandissimi nel valorizzare le parlate locali, penso a Gadda, che ha scritto un capolavoro in un dialetto che non era il suo. Queste cose arricchiscono una civiltà letteraria; nel mio piccolo cerco di farlo. Non sono l’unico, in questo, né in Italia, né in assoluto: ho tradotto un autore della Martinica, Patrick Chamoiseau, che scrive in francese, ma mescolando una quantità di creolo delle isole caraibiche. Secondo me molti francesi non capiscono parole creole che, però, vengono capite da qualcuno e lentamente entrano a far parte del loro linguaggio”[4].

Di Atzeni si è parlato non a torto come di uno scrittore eminentemente urbano e, tuttavia, ridurre il rapporto luogo-fiction/non fiction atzeniano alla dimensione cagliaritana risulterebbe quantomeno ingeneroso. Perché se è vero, da una parte, che Atzeni calza perfettamente le vesti di quel “barabba di periferia” di cui tanto ha scritto e rappresentato, in qualche misura, il cantore, la parabola del rapporto letterario/geografico delle sue storie prevede un colpo d’occhio di maggiore e più universale gittata, che abbraccia luoghi altri e di appartenenza comunitaria (basterebbe citare il solo Passavamo sulla terra leggeri, che pur con il filtro della libera riscrittura storico-geografica racchiude in sé un più ampio respiro di serena progettazione). Quello che sembra non mancare mai, in nessun caso letterario, è l’attenzione ai luoghi degli ultimi. Come accennato in precedenza, la volontà e lo spirito gramsciano di inserirsi in quelle “storie ultime, e così nei loro luoghi” accompagna Atzeni fino alle ultime produzioni. E, anche quando stretto da parentesi storiche rigide (L’apologo del giudice bandito) la rappresentazione dello spazio deve passare, per forza di cose, dal “segno atzeniano”, dalle segrete in cui viene sepolto vivo Itzoccor Gunale nell’Apologo del giudice bandito, i vicoli di castello infestati dai popolani, le stamberghe della marina, fino alle miniere di Montevecchio e Carbonia sotto costante presidio fascista ne Il figlio di Bakunin e ancora il quartiere di Santa Lamenera in Bellas Mariposas, periferia di Kasteddu.

Interessante, in questo caso, un aperto confronto con Pier Paolo Pasolini, le cui differenze nel trattare letterariamente una materia simile, anche se distanziata temporalmente (le borgate pasoliniane, i personaggi del Riccetto, di Marcello, le vite violente dei ragazzi di vita dello scrittore romano sono ancora figlie di quell’assestamento sociale, civile, economico e politico del secondo dopoguerra; i personaggi periferici, i Kasteddaios di Atzeni sono già figli del boom economico e del “vuoto pneumatico” di matrice consumistica anni ’80 e ’90) di cui dà conto Mauro Pala quando scrive “Manca però qui, a differenza di Pasolini, una teoria del riscatto economico, non si fa sociologia della letteratura trattando del degrado di periferia. Atzeni fa essenzialmente letteratura.” e poi Giuseppe Marci “C’è, nel suo atteggiamento un ulteriore manifestazione del desiderio di confondersi con i giovani sottoproletari della periferia urbana che ama osservare e dei quali sa riprodurre atteggiamenti ed espressioni gergali.”[5]

Per meglio comprendere quest’ultima affermazione, sarà utile ricordare come ogni rappresentazione sia veicolata dalla parola, dal suono, dall’immagine. In buona sostanza, potrebbe affermarsi come di storia in storia vengano risimulati dei luoghi ad opera d’autore. E di Sergio Atzeni conosciamo la musicalità insita nel testo, vero e proprio sottotesto delle trame romanzesche, il ricco immaginario sistematicamente messo in gioco e spesso ibridato di forme altre, gli spazi, che poi si fanno luoghi dal momento che “Il luogo letterario è un mondo virtuale che interagisce in maniera modulabile con il mondo di riferimento. Il grado di adattamento dall’uno all’altro può variare da zero a infinito”[6].

Quando si ha a che fare con il segno atzeniano, plurimo, stratificato, sfuggente, sappiamo che in un certo qual modo non ci si deve porre come artigiani al lavoro di materiale monolitico, consegnato in una qualche impressione di finitezza, e che “per cogliere la portata di questo segno che si nasconde nel ritmo incalzante della narrazione; questo segno che ogni volta rischia di sfuggire al lettore che corre dietro al filo della storia e alla fulminea prosa di Atzeni; per vedere finalmente il visibile ma soprattutto acchiapparne il significato apparentemente oscuro”[7] non possiamo esimerci dal tentare il ricordo della polisensorialità insita nell’opera di Sergio Atzeni. Non sembrerà strano assistere a una polifonia percettiva nella rilettura dei romanzi principali e di alcuni scritti minori di Atzeni. È la conoscenza stessa della realtà che si vuole mettere in atto a suggerire queste ibridazioni sensoriali: le prime pagine dell’Apologo del giudice bandito potrebbero già definirsi come pagine di Sensous Geography, la geografia sensoriale, non essendo trasposta in questo caso una data realtà topografica quanto una dominata da gusti e presenze corporee, che  abbiano a che fare più con il gusto, con l’udito, con l’odorato. E in Atzeni questo non sembra essere casuale. È tramite gli umori degli stessi personaggi e la descrizione sensoriale delle scene che l’autore sembra voler suggerire una più grande visione d’insieme, piccolo mappamondo del romanzo, lasciando che agisca in questo caso una non sempre puntuale rintracciabilità, una foschia che quel segno di cui abbiamo accennato (e per il quale ci viene in aiuto Franciscu Sedda) sembra risolvere in uno “spazio orientato”.

Dal paesaggio sonoro nell’inizio dell’Apologo si potrebbe pensare a quello “tattile” de Il Figlio di Bakunìn, nella cui storia i passi del protagonista altro non sono che passi di figlio di calzolaio, condizione che per tutta la vita andrà a marcarlo e a deciderne spostamenti geografici, fino alle mani impiegate nelle miniere prima di Carbonia e poi di Montevecchio. Polisensorialità che, nell’opera atzeniana, sembra divenire quasi metamorfosi dei luoghi. Ancora a determinare il dialogo tra geografia e letteratura: è la città che cambia storicamente e sotto il segno letterario di Atzeni, ed è in qualche modo lo stesso segno a ibridarsi di cambiamenti in atto oltremodo inevitabili. Atzeni sembra agire, tramite la parola e la stessa presenza in luogo di rappresentazione multisensoriale e di riscrittura del luogo, nel solco di queste difficoltà di cambiamento in atto rendendosi sensibile e aperto all’ascolto di questi nel momento in cui accadono. Si pensi a Bellas Mariposas, ai luoghi della periferia cagliaritana così difficili socialmente, così “lontani” perché frutto di politiche urbanistiche esclusive, a come vengono trasposti in letteratura: è d’impatto il vuoto sintattico e la quasi totale assenza di punteggiatura del romanzo. Cagliari è un luogo letterario estremamente contaminato e contaminabile: c’è dietro questa scelta una ragione politica, una questione identitaria sofferta e ragionata che potremmo racchiudere sotto il termine calaritanità. Atzeni avverte infatti la necessità di narrare il capoluogo, di provare a raccontare una Sardegna altra da quella dell’interno cui la tradizione letteraria aveva abituato generazioni. Il meticciato linguistico a cui sorride e che fa proprio, la narrazione scabrosa delle classi subalterne cittadine, la lingua stessa che si fa leggera in forza della sua contaminazione rendono il racconto di Cagliari sempre più verosimile alla sua verità geografica: Cagliari città di mare, avamposto commerciale al centro del mediterraneo occidentale, incontro-scontro di culture nel trascorrere dei secoli. Atzeni narra la prima realtà metropolitana isolana. Atzeni narra l’urbe cosciente dell’importanza del doverla narrare.

Ciò che la morte può in certi casi – quando arriva prima del tempo, quando arriva in modo selvaggio, furtiva e incontrollabile – è la facoltà di sopperire al vuoto della perdita con la creazione della figura-simbolo. Così è stato per Atzeni, in qualche misura, all’indomani della scomparsa. E così rimangono le sue parole, le periferie sensoriali racchiuse nelle storie narrate e quel catalogo di orribili fantasmi che- vivo per narrare e leggero sulla terra- avrebbe preferito bruciare[8].

Note:

[1] La poesia si chiama Quando mi scopro a giocare, originariamente pensata in un libro di poesie predisposto dall’autore per la stampa dal titolo La gallina di Lovicu Lobina, libro “di tre libri”, contenente Mi basta saper suonare a malapena una tarantella, Due colori esistono al mondo, il verde è il secondo, Filastrocca di quando buttavano a mare i tram. Il componimento in questione è stato studiato in sede di preparazione di questo elaborato dal testo di G. PORCU, Nota al testo, Le poesie del viaggio e il viaggio delle poesie, in S. ATZENI, Versus, Edizione critica di G. PORCU, Nuoro, Il Maestrale, 2008, p. 19.

[2] I. CALVINO, Eremita a Parigi. Pagine autobiografiche, Milano, Mondadori, 1994, p. 190.

[3] B. WESTPHAL, Geocritica Reale Finzione Spazio, Roma, Armando Editore, 2009, p.161.

[4] S. ATZENI in G. SULIS, Il mestiere dello scrittore, p.79. Per un approfondimento consultare G. SULIS, Introduzione a Trovare racconti mai narrati, dirli con gioia, Convegno di studi su Sergio Atzeni, Cagliari 25-26 novembre 1996, Cagliari, C.U.E.C, 1996.

[5] M. PALA G. MARCI, in Trovare racconti mai narrati, dirli con gioia, Convegno di studi su Sergio Atzeni Cagliari 25- 26 novembre 1996 a cura di GIUSEPPE MARCI E GIGLIOLA SULIS, Cagliari, C.U.E.C, 2001, pp. 46-126.

[6] Si torni sempre ai concetti relativi alla Geocritica ad opera di B. WESTPHAL, Geocritica, Reale Finzione Spazio, Armando Editore, Roma, 2009, p. 143.

[7] F. SEDDA, Il sogno del falco, Il codice nascosto nell’opera di Sergio Atzeni, Cagliari, Arkadia, 2020, p. 23.

[8] Ci si riferisce a un frammento della lettera d’invio del dattiloscritto dell’Apologo del giudice bandito alla Sellerio. Lettera datata Cagliari, 2 settembre 1985. Cfr. E. SELLERIO, Le notti della scrittura, “La grotta della vipera”, anno XXI, n. 72/73, Autunno-Inverno 1995, p. 24

Edoardo Mantega

Edoardo Mantega

Edoardo Mantega (1995) è laureato in Lettere moderne e specializzato in Produzione Multimediale. Si è occupato in sede di tesi magistrale dello studio della figura di Sergio Atzeni e delle sue opere principali, approfondendo attraverso un approccio geocritico alcuni temi e luoghi ricorrenti nell'opera dello scrittore cagliaritano. Affianca lo studio e incarichi nella scuola, con la scrittura e ha recentemente vinto il Premio internazionale città di Sassari 2022, con un racconto dal titolo "La promessa di esserci".