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“Però intanto che lui resiste tutta la palazzina 47 C di Via Gorbaglius quartiere di Santa Lamenera periferia di Kasteddu tutti ci svegliamo”[1].
Se con Passavamo sulla terra leggeri e, prima, Il figlio di Bakunìn il luogo della narrazione di Sergio Atzeni aveva le sembianze di un’intera isola (seppur mitizzata, geografia che si crea dalle parole) o di una parte consistente di essa (Sud Sardegna, Medio Campidano, ecc.), a fare i conti con Bellas Mariposas ci si ritrova a dover restringere nuovamente il campo d’indagine alla odiata-amata Cagliari, Kasteddu, Cagliè, come già era successo per l’Apologo del giudice bandito. E tuttavia, quel piccolo gioiello uscito postumo nel 1996 per Sellerio, ci impone di restringere il colpo d’occhio ancor di più: si guardi alla palazzina 47C di Via Gorbaglius quartiere di Santa Lamenera periferia di Kasteddu. È un racconto lungo, Bellas Mariposas, che segna un passo in più, o forse solamente diverso (per quanto rimangano componenti della narrativa atzeniana tanto nelle intenzioni geo-sociali-letterarie quanto nell’architettura della storia) rispetto agli scritti precedenti. La giornata di due ragazzine appartenenti al mondo del sottoproletariato cagliaritano viene raccontata da Cate, protagonista e voce narrante per eccellenza, a quel “barabba de Santu Mikeli buono a raccontare e scrivere”[2]. Torna quindi il meccanismo narrativo dell’“intervista”, già adottata dall’autore per Il figlio di Bakunìn. Come definire questo racconto lungo che ci consegna, inevitabilmente, un Sergio Atzeni diverso, una storia inedita, e una città per certi versi mai narrata? Goffredo Fofi, pensando la storia di Cate e Luna, guardando ai lineamenti della periferia di Cagliari, definisce Bellas Mariposas “cronaca d’oggi, svagata, urbana. Un mondo duro e misterioso e un mondo che sembra molle e chiaro e non lo è”[3]. Giuseppe Marci lo definisce invece come “progetto narrativo e linguistico tenacemente ideato, gradualmente realizzato opera dopo opera”[4] e, a ben vedere, la totale assenza di segni di interpunzione, nella più generale assenza di punteggiatura o quasi (eccezion fatta per sporadici esclamativi e interrogativi), la scelta dell’italiano regionale della periferia cagliaritana, il ritmo ossessivo ed estremamente colloquiale, sonoro, intimo informale, fa di quest’opera la più sperimentale e innovativa dello scrittore cagliaritano. Leggiamo, di Giuseppe Ledda e Gigliola Sulis: “Le sue storie raccontano l’Italia, il Mediterraneo, l’Europa, scegliendo come punto di osservazione la Sardegna, e all’interno dell’isola si insediano nella realtà urbana, fino ad allora poco rappresentata in letteratura, e dentro il perimetro urbano si collocano nei margini geografici e sociali, nei luoghi di incontro e di innesto. “Sono un barabba di periferia” scrive Atzeni, e se pure la nascita in Sardegna e l’infanzia trascorsa nel quartiere cagliaritano di Is Mirrionis-San Michele sono frutto del caso anagrafico, la rivendicazione orgogliosa di tale appartenenza e la marginalità delle storie narrate sono il risultato dell’assunzione consapevole di un punto di vista decentrato sul mondo”[5]. Questo è già stato discusso precedentemente: i luoghi d’elezione atzeniani sono luoghi dislocati e periferici, luoghi degli ultimi[6]. Ma per comprendere al meglio i luoghi narrativi di questo “jazz metropolitano suonato sui bidoni della spazzatura”[7] occorrerà spostarci direttamente al racconto. Ma prima: dove siamo?
«Case banali, con le serrande e i muri scrostati, i disegni osceni sulle pareti, nuove divinità falliche, i ragazzini che rubano la biancheria stesa, la miseria e la cultura del suburbio Ina-casa zeppo di immigrati, rinnovato dalle antenne TV e dalle cosce in copertina»[8], questo passo è tratto da E Maria ascese al Cielo, testo scritto ben prima di Bellas Mariposas, e che tuttavia torna utile per inquadrare quell’attenzione e quel legame, che l’autore ha e continuerà ad avere con Is Mirrionis, San Michele, le periferie in cui trascorre alcuni dei suoi primi anni. Il luogo è ben precisato, dunque, seppur fatto figurare poi con il fittizio nome di Santa Lamenera, ma siamo, soprattutto, e ancora una volta, nel paese-lingua di Atzeni. Scrive Mauro Pala: “Le frasi brevi, spezzate, enunciati perentori che costruiscono la voce narrante, unico supporto della fabula, appartengono ad una adolescente della suburra metropolitana. Episodi tragici e comici sono giustapposti come in un telegiornale. Anche i modelli della voce narrante sono televisivi: «non mi interessa voglio diventare rockstar dopo che sarò rockstar sceglierò l’uomo». I nomi degli altri personaggi vengono, analogamente, tratti di peso dalle telenovelas. Alla cinica considerazione del mondo che la circonda («andrò sui marciapiedi alle sei a impennare sui marciapiedi tutto intorno alla piazza rombando tenendovi svegli che tanto per voi è come stare addormentati non vi accorgete della differenza» fa riscontro una singolare sensibilità che Atzeni non liquida come sentimento d’accatto”[9]. La tensione narrativa, la scrittura fugace sembrano quasi restituire il moto incontrollabile che dalle prime righe del racconto viene fuori prepotentemente. Leggiamo:
“Era molto tempo che Tonio lo minacciava ma credevo che scherzava
Che lo odia lo so si vede da come lo guarda quando lo incontra e perché cerca sempre occasione di arropparlo di mala manera
Ma credevo che scherzava dicendo Un giorno quello lo uccido
E invece il 3 di agosto è stato il giorno dell’ammazzamento di Gigi del quinto piano l’innamorato mio”[10].
Atzeni inizia in questo caso svelando (apparentemente) il finale e in maniera forte[11], dinamica, ma soprattutto dà un’informazione a noi necessaria per la ricerca portata avanti, un piccolo particolare apparentemente insignificante, eppure primo luogo ufficialmente riportato per localizzare il racconto: quel “quinto piano” in cui vive Gigi, il morto ammazzato il 3 di agosto, l’innamorato di Cate. Il quinto piano altro non è che una piccola parte della dimensione geografica cui costantemente si ritorna in tutto il racconto e a cui ogni vicenda, personaggio, situazione gravita intorno: la periferia, sì, Santa Lamenera, ma soprattutto la dimensione domestica delle “palazzine” ABCD di via Gorbaglius, con una preferenza (per ovvie ragioni, e cioè la casa di chi racconta) la palazzina C.
Sono queste palazzine e sarà la piazza del quartiere, quella dell’apparizione nel finale di Aleni la Coga, l’epicentro da cui irradia il racconto e a cui questo tornerà, instancabilmente, fino alla fine. Effettivamente, dal racconto lungo gestito dagli occhi e dalla voce di Cate, verrà fuori quel senso di coralità già presente ne Il figlio di Bakunìn, con la differenza di un accentramento ancor più evidente: ne sarà esempio tutto il quartiere riversatosi la sera del non-ammazzamento di Gigi in piazza, la sera dei gatti che volano e balzano e che così tanto fanno pensare a quel filone del realismo magico sudamericano cui Atzeni viene spesso avvicinato[12]. Ma andiamo con ordine: dalle prime righe si arriva direttamente, dopo neanche tre pagine, a localizzare nuovamente il luogo del racconto, ed è la frase che ho citato in apertura di paragrafo: “Però intanto che lui resiste tutta la palazzina 47 C di Via Gorbaglius quartiere di Santa Lamenera periferia di Kasteddu tutti ci svegliamo”. C’è un senso di collettività e di appartenenza, in una sola frase, che non può essere ignorato, tanto più incosciente è la voce che la riporta (e una finta incoscienza autoriale, di conseguenza). Ma ancor prima di continuare la “narrativa dei palazzi e dei piani”, poco prima viene già citata anche la piazza, secondo elemento “interno” di tutto il racconto: “A me i motorini piacciono e anzi la prima cosa da fare appena compio quattordici anni è cuccarmi un Fantic 313 e andare da mezzanotte alle sei a impennare sui marciapiedi tutto attorno alla piazza rombando tenenendovi svegli che tanto per voi è come stare addormentati non vi accorgete della differenza”[13].
La piazza, i palazzi, le vie del quartiere. Il quartiere. Come mai prima, nell’opera di Atzeni, sembrano delinearsi due poli geo-sociali contraddistinti all’interno del mondo narrato: un polo interno (il quartiere nei suoi singoli elementi geografici delineati), uno esterno (il resto della città, il mare, come vedremo). Le forze che muovono i passi delle due protagoniste possono essere centripete o centrifughe: in un universo, però, in cui il centro è il margine, la periferia, l’intimo “brutale” di quella parte dell’occidente che non ce l’ha fatta, che sopravvive conscio della propria condizione subalterna e ghettizzata.[14]
La narrazione del centro, il quartiere e le case popolari d’appartenenza, continua: “perciò dico a mio babbo Tu mi hai fatto nascere sotto signora Sias e vuoi pure che porti soldi a casa da bambina? Io voglio andare a scuola e se non mi fai finire l’obbligo vado dai carabinieri e ti denuncio”[15].
La dimensione della casa, e del contatto con i vicini, in questo caso la signora Sias, sembra una costante che si ripresenta fortemente per tutto il racconto, come condizione d’appartenenza e per la quale coesistono sentimenti contrastanti. Questa stessa esperienza diretta del quartiere continua poi anche a pagina 43 “siccome abita al quinto ha diritto a metà terrazza l’altra metà dopo il muretto è della famiglia Aligas non so quanti sono in tutto perdo sempre il conto diciotto o diciannove ma forse non ho contato la bisnonna di Furtei quella piccola piccola che quando la mettono sulle sedie le gambe non arrivano ai poggiapiedi comment’is pippius”[16] e ancora, a pagina 44, prosegue la geografia dei piani e delle palazzine a costruire il mondo d’appartenenza: “Alex non tradisce la pivella è da tre anni con Simonetta figlia unica di vedova Basciu del quarto piano”[17] per attestarsi definitivamente, in una dichiarazione o nella dichiarazione di geolocalizzazione per eccellenza, nella frase “tutti ci credono gemelle siamo nate a tre giorni di distanza lo stesso mese lo stesso anno nelle palazzine 47A e 47C di Via Gorbaglius”[18]. Parlando della “geografia delle palazzine”, venendo dunque a contatto con il mondo “violento” evocato, mondo che in qualche modo assolve e risolve da sé questioni tanto interne quanto esterne a sé medesimo, riportandone alcuni passi come esempio, viene spontaneo guardare ad altri due casi letterari che per certi versi incontrano l’Atzeni di Bellas Mariposas e i casteddaios delle periferie: si parla di Pier Paolo Pasolini e di Walter Siti. E se per il primo, ripensando a episodi tratti da Ragazzi di vita e Una vita violenta, troviamo forse una lontananza maggiore dalle Mariposas atzeniane[19], in forza oltretutto di una distanza temporale notevole tra le due narrazioni e un divario insanabile tra le due compagine sociali rappresentate (una è l’Italia della capitale del secondo dopoguerra, l’altra è periferia della periferia a cavallo tra gli ‘ottanta che finiscono e il boom dei ‘novanta), per il secondo, prendendo come esempio Il contagio, sembriamo forse avvicinarci di più.
Se infatti “Tommaso, Lello, il Zucabbo e gli altri ragazzini che abitavano nel villaggetto di baracche sulla Via dei Monti di Pietralata”[20] sembrano cancellare, nello scorrere delle pagine, la condizione del sottoproletariato per far posto a quella della ferocia della Roma notturna, del ritmo ingestibile della metropoli ancora agitata dai cambiamenti politici e sociali in atto e da loro stessi a contatto con quel tutto, se questi personaggi, insomma, sembrano risolversi verso l’esterno e rappresentare una parte di mondo che si mescola con il resto, ma una parte viva e diversa, i personaggi di Siti ne Il Contagio sembrano appartenere invece a quel mondo in modo già consolidato, occupando però uno “spazio più piccolo e intimo”, ovvero: il tanto di un condominio. E se le borgate ormai sono state “scoperte”, insomma, se non si rende più necessaria l’avvertenza pasoliniana che recita “I riferimenti a singole persone, fatti e luoghi reali qui descritti sono frutto di invenzione: tuttavia vorrei che fosse ben chiaro al lettore che quanto ha letto in questo romanzo è, nella sostanza, accaduto realmente e continua a accadere”[21] può essere interessante sbirciare all’interno delle similitudini tra il condominio di Vermeer[22] e quello di Via Gorbaglius 47.
Anche la storia di Gianfranco e Fiorella, di Sergetto e Nina, è architettata all’interno di una struttura a “piani di condominio”: ne risulta un senso letterario-architettonico d’insieme, un senso quasi familiare del raccontare la storia gestito interamente dall’interno della palazzina: in apertura al volume di Walter Siti è presente un grafico (è effettivamente la riproduzione planimetrica del condominio con all’interno il nome delle famiglie occupanti, piano per piano) che serve quasi da “mappa” geolocalizzante per disporre elementi e personaggi del romanzo nel preciso luogo d’elezione. In qualche misura Bellas Mariposas, seppur differendo dalle avventure romane appena citate, fa lo stesso: come fosse tutto un grande condominio ci vengono presentati, scandendoli piano per piano, per casa, per terrazzo, i personaggi del plot romanzesco. I due romanzi sembrano dunque in qualche modo legare, nonostante gli anni che li separano. Ma torniamo ora a Mariposas.
Il percorso geo-letterario, come accennato in precedenza, prevede, tramite il narrato di Cate, il dispiegarsi di una giornata particolare nella vita della ragazzina e della sua amica. E se, come abbiamo visto, da una parte è giocato un costante ritorno al centro intimo e nevralgico della storia, Santa Lamenera e le palazzine di Via Gorbaglius, i luoghi del romanzo subiscono un cambiamento e una risignificazione quando i passi delle due bambine muovono verso l’esterno. L’esterno è Cagliari, ovviamente, nei suoi luoghi più “centrali e benestanti”[23] ma, soprattutto, torna ancora una volta un elemento della geografia atzeniana sempre presente: il mare. Se effettivamente quest’opera, come del resto molto dell’universo letterario di Atzeni, risulta essere prima d’ogni cosa tempio della parola e della narrazione, tempo della fiction, vera perché corrispondente ai dettami della verità decisi in origine dal suo autore o dalle condizioni di appartenenza alla storia narrata, i luoghi geografici mutano parallelamente al cambiamento dello stile. In altre parole: prendendo per intero Bellas Mariposas, dopo pagine di scrittura sporca, caotica, colloquiale, irrompe la poesia, e questa arriva con il mare, come forza purificatrice:
“quando nuoto dimentico casa quartiere futuro mio babbo il mondo
e mi dimentico
dovevo nascere pesce
mi piace guizzare sotto il pelo dell’acqua e uscire ogni tanto a guardare il sole che scintilla sulle ondine di maestrale o abbaglia sulle onde di levante che ti succhiano in basso
mi piace giocare con le onde allungarmi perché mi portino in alto e mi buttino in un gorgo
scivolargli sotto combattendo il risucchio
passargli in mezzo spaccandole a volte sono dure come schiaffi
e quando il mare è come ieri piatto (il maestrale è andato via il levante arriverà più tardi) mi piace ascoltare nell’acqua il rumore del mio respiro che entra e esce ogni tre bracciate”[24].
Continua poi, e ci dice qualcosa di più:
“gente di Santa Lamenera non c’è uno che nuota a stile siamo grezzi” e anche la lingua torna quella di prima.
Sembrerebbe che anche la lingua, come le azioni e le sensazioni vissute dalle protagoniste, si faccia pura, sognante, “poesia” al solo contatto con l’esterno, l’elemento naturale, il mare. È quell’immersione purificatrice che ci consegna l’impressione di un mondo spaccato a metà, ben conscio rispettivamente di una prima situazione (interna, centrale e periferica) e dell’altra (esterna, oltre il quotidiano).
Note:
[1] S. ATZENI, Bellas Mariposas, Cagliari, Società editrice l’Unione sarda, La biblioteca dell’identità (proprietà letteraria Sellerio editore Palermo), 2003.
[2] Ibid, pp. 87-88.
[3] G. FOFI, Uno scrittore necessario, prefazione a S. ATZENI, Bellas Mariposas, Cagliari, Società editrice l’Unione sarda, La biblioteca dell’identità (proprietà letteraria Sellerio editore Palermo), 2003, p. 12.
[4] G. MARCI, A lonely man, Cagliari, C.U.E.C, 1999, p. 55.
[5] G. LEDDA e G. SULIS, Per una definizione del contesto: Sergio Atzeni nella narrativa di fine Novecento, in Sergio Atzeni e le voci della Sardegna, Bologna, Bononia University Press, 2017, p. 12.
[6] Di questo tema specifico mi sono occupato nel mio precedente contributo, E. MANTEGA, Il “luogo terzo”tra geografia e letteratura: la Sardegna sotto il segno di Sergio Atzeni, in “Filosofia de Logu”, n.1, Ottobre 2022.
[7] E. FERRERO, Atzeni vive con le sue farfalle, “Tuttolibri”, a. XXII, supplemento redazionale de “La Stampa”, 30 gennaio 1997.
[8] S. ATZENI, E Maria ascese al cielo, “La Nuova Sardegna”, 6 ottobre 1977.
[9] M. PALA, Sergio Atzeni, autore post-coloniale, in G. SULIS, Una tesi di laurea su Sergio Atzeni, Trovare racconti mai narrati, dirli con gioia, Convegno di studi su Sergio Atzeni, Cagliari, 25-26 novembre 1996, Cagliari, C.U.E.C, 1996, pp. 125-126.
[10] S. ATZENI, Bellas Mariposas, Cagliari, Società editrice l’Unione sarda, La biblioteca dell’identità (proprietà letteraria Sellerio editore Palermo), 2003, p. 25.
[11] Si veda a tal proposito l’interessante lavoro di Carola Farci a proposito dei rapporti di Atzeni con la letteratura Sudamericana e Garcìa Marquez: “Il famoso romanzo breve di Gabriel García Márquez inizia così: «Il giorno in cui l’avrebbero ucciso, Santiago Nasar si alzò alle 5,30». Márquez inizia il suo racconto svelando il finale. La stessa frase «il giorno in cui l’avrebbero ucciso» è ripetuta alcune pagine dopo, mentre in molte altre occasioni l’autore scrive «quel giorno», sottolineandone enfaticamente l’importanza, marcando il tempo che scorre, martellando il concetto. È la stessa tecnica utilizzata da Sergio Atzeni in Bellas Mariposas. Ci dice Cate, nella prima pagina del racconto: «il 3 agosto è stato il giorno dell’ammazzamento di Gigi del quinto piano l’innamorato mio». Anche questa frase si ripete molte volte con il susseguirsi delle pagine. Enfatizza il tempo. In entrambe le proposizioni la morte si dà per compiuta, ma solo nel primo caso viene rispettata. In realtà, se ci soffermiamo a riflettere sui tempi verbali, vediamo che «lo avrebbero ucciso» è molto più debole di «è stato il giorno dell’ammazzamento»: nel primo caso solo sappiamo che qualcuno aveva l’intento, ma il condizionale con valore di futuro lascia in realtà celata la realizzazione, mentre nel secondo caso ci è chiaro da subito che lo uccisero, anche se, come già abbiamo notato, ciò non risponde alla verità.” C. FARCI in Intertesto: Cronaca di una morte annunciata, in L’ombra lunga sudamericana: l’influenza di Gabriel García Márquez nella letteratura di Sergio Atzeni, Otto-Novecento3/15 p. 154.
[12] Sempre in C. Farci: “Al contrario di quanto avviene in Bellas Mariposas dove proprio l’intervento surreale della coga salva la vita di Gigi. Pertanto ci piace concludere pensando che, col passare degli anni, con lo studio sempre più proficuo della tradizione sarda, con il proseguire dell’interesse latinoamericano, e, chissà, forse anche con l’avvicinamento alla religione cattolica che in qualche modo lo allontana dal pensiero razionalista, Atzeni cominci a confidare nel mondo come in qualcosa di non necessariamente meccanico e determinato, ma in cui rimanga praticabile lo spazio del magico e del fantastico che può salvare chiunque dalla propria quotidianità.” Ibidem, p. 159.
[13] S. ATZENI, Bellas Mariposas, Cagliari, Società editrice l’Unione sarda, La biblioteca dell’identità (proprietà letteraria Sellerio editore Palermo), 2003, p. 27.
[14] “Alla marginalità e all’isolamento di Atzeni all’interno della narrativa nazionale si contrappone la sua naturale appartenenza a una della tendenze più innovative della produzione internazionale: la letteratura postcoloniale, che unisce scrittori culturalmente e geograficamente lontanissimi, espressione e portavoce di alternative visioni del mondo provenienti dalle periferie della cultura occidentale, venuti sempre più prepotentemente alla ribalta a partire dagli anni Settanta.” in G. SULIS, Introduzione a Trovare racconti mai narrati, dirli con gioia, Convegno di studi su Sergio Atzeni, Cagliari 25-26 novembre 1996, Cagliari, C.U.E.C, 1996, p.19, per ulteriori approfondimenti su Sergio Atzeni e il postcoloniale si veda nello specifico l’intervento a cura di Mauro Pala presente nello stesso volume.
[15] S. ATZENI, Bellas Mariposas, Cagliari, Società editrice l’Unione sarda, La biblioteca dell’identità (proprietà letteraria Sellerio editore Palermo), 2003, p. 32.
[16] Ibid, p. 43.
[17] Ibid, p. 44.
[18] Ibid, p. 52.
[19] È interessante leggere a tal proposito M. PALA “Manca però qui, a differenza di Pasolini, una teoria del riscatto economico, non si fa sociologia della letteratura trattando del degrado di periferia. Atzeni fa essenzialmente letteratura. Letteratura come fatto, non come illustrazione, con un ampliamento del raggio d’azione della letteratura stessa.” M. PALA, Sergio Atzeni, autore post-coloniale, in G. SULIS, Una tesi di laurea su Sergio Atzeni, Trovare racconti mai narrati, dirli con gioia, Convegno di studi su Sergio Atzeni, Cagliari, 25-26 novembre 1996, Cagliari, C.U.E.C, 1996, pp. 125-126.
[20] P.P.PASOLINI, Una vita violenta, Milano, Garzanti, 2012, p. 11.
[21] Ibid, p. 369.
[22] È il condominio ritratto ne Il Contagio di W. SITI.
[23] Si pensi alle scene in Piazza Repubblica, in Via Manno, parco giochi per le bambine, “mondo altro” in cui tutto sembra possibile poiché nel proprio mondo non è possibile niente, o quasi. Si pensi all’episodio del gelato: questo è motivo di gita fuori porta e distacco dalla vita di tutti i giorni.
[24]S. ATZENI, Bellas Mariposas, Cagliari, Società editrice l’Unione sarda, La biblioteca dell’identità (proprietà letteraria Sellerio editore Palermo), 2003, pp. 55-56.
Edoardo Mantega (1995) è laureato in Lettere moderne e specializzato in Produzione Multimediale. Si è occupato in sede di tesi magistrale dello studio della figura di Sergio Atzeni e delle sue opere principali, approfondendo attraverso un approccio geocritico alcuni temi e luoghi ricorrenti nell'opera dello scrittore cagliaritano. Affianca lo studio e incarichi nella scuola, con la scrittura e ha recentemente vinto il Premio internazionale città di Sassari 2022, con un racconto dal titolo "La promessa di esserci".