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Va ribadito che la situazione di coatta inferiorità dell’oppresso rispetto all’oppressore, produce una “effettiva” inferiorità, che serve a sua volta a rafforzare il pregiudizio. Pregiudizio del dominatore e basso livello di vita del dominato finiscono per determinarsi l’un l’altro, creando un circolo vizioso che non può spezzarsi se non con la rivolta dei popoli. Il razzismo scompare soltanto con la scomparsa dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Ugo Dessy, Educazione popolare come movimento di liberazione in Sardegna
Questo breve intervento trova la prima ispirazione nell’esperienza personale di emigrazione dalla Sardegna alla penisola. Difatti il confronto con cornici esperienziali diverse mi ha posto in una condizione di autoriflessione e riposizionamento davanti alle narrazioni introiettate e stigmatizzanti che emergevano frequentemente; dalla incessante necessità di far notare il mio più o meno accento marcato allo sbigottimento generale quando riferivo non saper parlare fluentemente il sardo alle domande lampantemente problematiche come “è vero che in Sardegna siete arretrati?”. E mentre mi immergevo negli studi postcoloniali, con una inclinazione verso l’ambito americanistico, non ho potuto non rivolgere lo sguardo al contesto a me più familiare, trovando, seppure con le dovute differenze contestuali, delle reiterazioni fenomenologiche in seno alle strategie d’oppressione di stampo colonialista. Attraverso un approccio antropologico ed ermeneutico ho così deciso di rileggere non solo la mia esperienza, ma di portare alla luce con gli strumenti a me a disposizione voci, vissuti e fatti storici e socio-culturali oscurati, come direbbe Gramsci, dal discorso egemone.
In Sardegna la sostituzione della lingua sarda in alcuni ambienti e il tentativo di sostituzione in altri a favore dell’italiano si inseriscono in una fitta rete di dinamiche coloniali storiche, partendo dalla presenza sabauda nell’isola: la privatizzazione dei terreni agro-pastorali, il ribaltamento dell’assetto socio-culturale ed economico locale con strumenti talvolta violenti e repressivi, il devasto ambientale attraverso il disboscamento, lo sfruttamento del territorio volto all’espropriazione e all’esportazione di materie prime, la cancellazione della storia sarda all’interno della narrazione nazionale, l’immaginario denigratorio e stigmatizzante, la riduzione a “folklore” ovvero la mercificazione turistica e culturale, l’occupazione e la sperimentazione bellica. Tutto ciò non va solo a modificare l’assetto sociale, economico e territoriale locale – deturpandolo –, ma preme anche sul piano percettivo-valutativo ed esistenziale degli attori sociali.
La lingua italiana, dall’Unità d’Italia e soprattutto attraverso la modernizzazione, funge da strumento imprescindibile e omologante per l’entrata nel capitale sociale ed economico statuale.
È dai primi anni del Novecento che, come ci mostra l’antropologo Michelangelo Pira in La rivolta dell’oggetto[1], la scolarizzazione in Sardegna inizia a creare una condizione di disparità valoriale linguistica – di diglossia – in cui la lingua promossa dall’amministrazione statuale non permette e, anzi, emargina le strutture linguistiche allofone. La comunicazione si configurava unilaterale e i codici trasmessi dovevano essere imparati e ripetuti dalla popolazione, dinamiche che venivano reiterate da figure di controllo – come maestri e burocrati.
Con chi impara la lingua italiana sotto le armi e chi la impara per aver migrato dalle campagne ai poli industriali, la condizione linguistica inizia a stratificarsi sempre di più e la competenza dell’italiano viene posta come necessaria per entrare in determinati spazi. La validità grammaticale della lingua coincide allora con la validità sociale; il parlante sardo, monolingue, è dunque costretto al silenzio e all’emarginazione.
La costruzione dell’Altro
Ritenendo la lingua un serbatoio di senso socio-culturale o lo strumento comunicativo, come scrive Bourdieu in La parola e il potere[2], che proietta le rappresentazioni, le autorappresentazioni e i presupposti critici dei parlanti, essa non può essere slegata dal suo contesto di produzione e rinegoziazione e possiamo dunque affermare che non può essere slegata dalla strumentalizzazione dell’operato repressivo coloniale. Se infatti, riprendendo il pensiero Fanon, il colonizzatore mira a instaurare un rapporto di potere in cui la realtà del colonizzato viene rovesciata, appropriata, e l’ontologia locale sostituita[3], la lingua diventa uno degli strumenti ripetutamente usati. Todorov, ad esempio, ci fa notare che dagli stessi diari di viaggio di Colombo, non appena quest’ultimo mette piede nel continente americano, la prima azione che compie è quella di rinominare i luoghi, ignorando la lingua locale e perciò calpestando le significazioni indigene[4].
Dalla costruzione etnocentrica dell’Altro – oggettivante i propri codici di senso – nascono le categorie dicotomiche, che entrano in un rapporto di costruzione mitopoietica co-condizionata: civilizzato e barbaro, Occidente e Oriente, Nord e Sud. Il secondo viene cristallizzato in un microcosmo reificato dal primo, come ad esempio spiega Said nel merito alla costruzione della categoria “Oriente”[5] e Gramsci al rapporto tra il Settentrione e il Mezzogiorno. Come gli indigeni del continente americano, “buoni selvaggi” o “selvaggi rozzi” secondo l’occhio degli europei, anche la popolazione sarda viene stigmatizzata nelle stesse categorie razziste e valoriali – basti pensare al resoconto di Niceforo sul banditismo, in cui i sardi vengono descritti come “naturalmente” volti alla delinquenza e alla violenza, rifacendosi alle teorie frenologiche[6]. E con “arretratezza”, secondo le aspettative modernizzatrici, si allude a una inferiorità umana, sociale e culturale dell’Altro, il quale risulta in quest’ottica incapace di autodeterminare le sue esigenze e la sua esistenza. Questa visione, radicalizzandosi sistematicamente, permea anche nella concezione di sé del colonizzato – il quale inizia a guardare sé stesso con gli occhi del colonizzatore.
Dalla seconda metà del Novecento, quando la Sardegna si ritrova a far fronte al disastroso Piano di Rinascita e alle misure di ristrutturazione americanocentriche, l’italiano diventa sempre di più, insieme con il modello tecnoscientifico capitalistico e la diffusione dei mass media, la lingua della modernità – del nuovo e, dunque, secondo le teorie evolutive migliorative di “svliuppo”, dell’auspicabile. In quest’ottica l’idioma diventerebbe il medium comunicativo di liberazione da quella installata e percepita condizione di arretratezza, non superabile attraverso gli strumenti dello stato. La lingua sarda inizia allora, al contrario, a essere considerata tabù, non viene più insegnata alle nuove generazioni e, facendo proprie le narrazioni stigmatizzanti, inizia a instaurarsi quella “vergogna di sé” di cui parla Placido Cherchi. Scrive l’antropologo:
Non si possono avere dubbi sul fatto che la transcrescenza spontanea dell’autocensura linguistica abbia contribuito in modo potente allo sviluppo liquidatorio portato avanti dalla “modernità” contro le perduranze de sa limba. Così come non si possono avere dubbi sul fatto che l’opérateur reale di quella transcrescenza fosse la “vergogna di sé”, il crescente distanziamento dei sardi dal senso di un’identità già sentita come goffaggine. Le generazioni italofone, e solo italofone, del nostro tempo ne sono la testimonianza, se è vero che l’abbandono del sardo da parte loro appare tanto più diffuso e convinto quanto più profonda e senza ritorno appare la loro immersione nelle luminescenze del “nuovo”[7].
Per Cherchi il “Sé storico” dei sardi sarebbe concepito nella sola condizione di subalterno e nel solo paragone con l’agente egemone, precipitando in una non-esistenza e in una considerazione di sé come partecipante passivo alle dinamiche storiche e sociali. Egli rintraccia questa ferita coloniale nella stessa struttura linguistica sarda, in cui l’uso frequente del congiuntivo al posto dell’indicativo, rispetto all’italiano, esprimerebbe una realtà dubbia e incerta che “avrebbe dovuto poter essere” e una perdizione esistenziale nel tempo e nello spazio; allo stesso modo possiamo pensare alla tendenza espressiva di negare qualcosa per affermarla e quindi alla tendenza antifrastica d’espressione.
Le incongruenze dell’autocensura: pratiche inconsce di resistenza
Rispetto a quanto detto sopra, va considerato che la lingua non può essere percepita come una struttura chiusa; l’incontro culturale e linguistico è una costante inevitabile dell’esperienza umana. Ciò significa che la lingua non può essere isolata o reificata, così come il suo apprendimento non può essere costretto a una riproduzione identica di codici e di significati. Qualunque implementazione forzata “esterna” che entra in un contesto materiale e simbolico, insieme con l’agency e la rinegoziazione creativa inconscia – e non – dei soggetti, non potrà essere coerente ai presupposti iniziali; da specificità locali derivano esigenze differenti e queste ultime nel rapporto tra gruppo egemone e gruppo subalterno non vengono considerate – come Gramsci stesso osserva rispetto alla pretenziosa estensione del patrimonio socio-economico e linguistico-culturale del Nord verso il Sud.
Difatti la risignificazione della lingua italiana nel contesto sardo, soprattutto nelle zone urbane subalterne, ha dato luogo a una sovrapposizione linguistica, che va instaurandosi parallelamente alla stessa volontà di censurare il sardo. Questo crea una frattura antitetica che con la rinegoziazione del farsi quotidiano può dar vita a “un terzo elemento” non riducibile a una considerazione binaria che isola le due lingue. Difatti in questo caso l’italiano messo in pratica risulta impregnato della struttura linguistica sarda, con la “sardizzazione” di termini della lingua italiana o con l’inserimento frequente di termini sardi – da sostantivi a intercalari.
È evidente come la decisione di non parlare o insegnare il sardo ai figli cada in contraddizione; le intenzioni degli agenti si scontrano con l’inevitabilità della propria condizione sociale e storica di produzione. Una censura totale non è possibile così come la rivendicazione identitaria dogmatica va incontro a una incongruenza de facto.
Ponendosi oltre il relativismo e il dogmatismo, Cherchi promuove allora un’autocoscienza relazionata alla pratica demartiana dell’etnocentrismo critico[8], che si risolve – nella costruzione dialogica del Sé e del diverso-da-Sé – in un’autoriflessione sui valori culturali in cui si è immersi e sulla radice storica degli stessi, al fine di prendere coscienza dell’Altro, dell’ambiente circostante e della propria condizione esistenziale. La presunta passività dell’attore sardo è smentita, in questo caso, dalla spinta creativa di rinegoziazione e proprio quest’ultima potrebbe fungere da trampolino di lancio per questa presa di coscienza della propria posizione nel mondo.
L’intenzione di Cherchi è di mettere in evidenza la ratio della struttura linguistica sarda, ricostruendo i lacci che le legano al loro ambiente di produzione, vedendo questa non come elemento di cui vergognarsi e da autocensurare, ma come una combinazione storica e socio-culturale che riflette sull’agente il modo di costruire, abitare, se stesso e lo spazio in cui si muove. Solo in questo modo l’agente può uscire dalla sua condizione di subalternità e di censura storica, senza cadere in una lotta etnica dal gusto dogmaticamente etnocentrico. La forzatura dell’isolamento geografico e socio-culturale sarebbe infatti impossibile e non accettabile, così come la scissione dall’italianizzazione che è andata instaurandosi. Al contrario, la riproduzione dell’italiano “sardizzato” è una dimostrazione dell’impossibilità di una compressione culturale – consapevoli quindi della labilità della disposizione culturale umana.
In conclusione, possiamo affermare che la lingua è potere nella dimensione in cui essa può fungere da strumento coercitivo e normalizzante secondo i presupposti di senso del gruppo egemone. Dall’altra parte, la lingua si dimostra essere anche un “poter fare”. Difatti, per riprendere un’ultima volta Bourdieu, è proprio dalla pretesa unificante che emergono gli scarti differenziali non prettamente linguistici, bensì socio-culturali dei parlanti insieme con la loro agentività. La capacità creativa, inconscia o no, è rintracciabile nell’uso e nella trasformazione della lingua “legittima”: della pronuncia, del lessico, della sintassi. Con la presa di coscienza, che ci permette anche una riappropriazione storica, possiamo allora muoverci verso una forma d’autodeterminazione espressiva, rompendo attivamente con la narrazione escludente in cui i sardi sarebbero destinati al silenzio passivo e alla sopportazione mortificante delle ferite coloniali.
Bibliografia
[1] Pira, M. (1978) La rivolta dell’oggetto: antropologia della Sardegna. Milano: Giuffrè.
[2] Bourdieu, P. (1988) La parola e il potere. L’economia degli scambi linguistici. Venezia: Guida.
[3] Fanon, F. (2007) I dannati della terra. Torino: Einaudi.
[4] Todorov, T. (2014) La conquista dell’America. Il problema dell’«altro». Torino: Einaudi
[5] Said, E. (2013) Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente. Milano: Feltrinelli
[6] Niceforo, A. (1897) La delinquenza in Sardegna. Cagliari: Della Torre
[7] Cherchi, P. (2013) Per un’identità critica. Alcune incursioni autoanalitiche nel mondo identitario dei sardi. Cagliari: Arkadia. Pag. 54
[8] Per approfondimenti si veda: De Martino, E, Charuty, G., Fabre, D., Massenzio, M. (a cura di) (2019) La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali. Torino: Einaudi
Cagliari, 1998. Laureata al corso triennale in Antropologia e attualmente iscritta a quello Magistrale in Antropologia culturale ed Etnologia presso l'Università di Bologna. Attivista transfemminista e libertaria.