Il fuoco della subalternità e i suoi intellettuali organici
collettivo Filosofia de Logu – tempo di lettura: 15 minuti – Di fronte ad una catastrofe di queste proporzioni, ingenuamente ma altrettanto consapevolmente noi tuttə del collettivo Filosofia de Logu avevamo mantenuto in cuor nostro una speranza: quella che la Sardegna e le persone sarde (di nascita o di adozione) venissero risparmiate, almeno questa volta, dai crucifige gratuiti provenienti dal mondo dell’intellighenzia isolana. Ci riferiamo ai vari opinionisti, a cui sono riservati gli spazi mediatici principali, pronti a tirare in ballo l’atavico e irredento problema dell’arretratezza culturale, a proporre analisi gonfie di quel veleno e di quell’odio di cui sono capaci soltanto gli intellettuali quando devono scaricare ogni colpa e ogni misfatto sulla gente comune, dipinta e trasfigurata – come sempre in queste occasioni – nell’unica immagine stereotipata che sembra essere possibile, quella del sardo-incendiario-troglodita-incivile. Consapevoli della nostra ingenuità, ecco le nostre speranze disattese prima ancora di venir espresse. Puntuale come una sentenza già scritta, infatti, all’indomani della catastrofe, sulle pagime della Nuova Sardegna è uscito un editoriale di Marcello Fois, intitolato «La brava gente, il cancro dell’isola». Tale disamina ai nostri occhi è – a voler essere rispettosi – semplicemente irricevibile. Fois si lancia in un’invettiva paternalistica e moraleggiante, mescolando senza alcuna logica fenomeni e fatti di cronaca che nulla hanno a che fare tra loro, confondendo luoghi e geografie in un indistinto calderone con l’unico scopo di suscitare un profondo senso di colpa comunitario. La sua retorica inquisitoria devia costantemente l’attenzione da quello che dovrebbe essere il reale focus della questione, evitando di menzionare i tanti e ormai assodati fattori materiali (su scala regionale e statale) che costituiscono la prova provata delle responsabilità istituzionali dell’annoso e ripetuto disastro degli incendi in Sardegna. Nel j’accuse foisiano vengono frullati presunti genitori che gettano via le sigarette dalle auto in corsa, il cittadino modello che gira per le strade con l’arma carica in tasca (il riferimento ai fatti di Voghera è tanto lampante quanto, appunto, privo di qualsiasi connessione coi fatti commentati, e perciò decontestualizzato e decontestualizzante), il giovane fidanzatino che mette fuoco alla sua amata perché ha subito un rifiuto, coloro che abbandonano frigoriferi e scaldabagni nel «ciglio della provinciale» e gli immancabili arrostitori di porcetto «nel territorio demaniale» (impossibile che l’arrosto incriminato non sia appunto di porcetto; la retorica di condanna deve colpire l’universo simbolico in cui tutta la «brava gente» di Sardegna si riconosce, suscitando così reazioni di autocommiserazione). Ciò contro cui si punta l’indice, qui, è il solo nemico che interessa fustigare, colpevolizzare, minorizzare e infine ridurre all’impotenza e alla passiva accettazione della propria condizione subalterna: «noi sardi brava gente». Chi realmente sia questo “noi”, non è dato sapere. A chi è attribuita questa identità negativa che entra in gioco ogniqualvolta vi siano occasioni affinché la società civile sarda possa aprire gli occhi sui meccanismi di subalternità strutturale che regolano la vita sociale, civile e politica della nostra isola? Chi è realmente questo “noi” antitetico da esibire come metro di paragone e su cui riversare ogni colpa? Noi pensiamo di avere una possibile risposta. Questo “noi” assolve la funzione retorica di costruire una collettività connotata da un valore negativo, declinata in maniera autopunitiva, e dalla quale è assolta la voce del soggetto predicante e giudicante. Tale soggetto è definibile come “autocolonizzato”. Nel suo articolo Fois lo incarna perfettamente, vestendone i panni e recitandone la parte; facendosi insomma portavoce, in maniera più o meno consapevole, di quell’ideologia che dell’autocolonizzato muove pensieri e parole, atti e ragionamenti. Le lacune e le debolezze argomentative, assieme all’assenza di dati su cui imbastire una concreta analisi materiale e un punto di vista strategico e d’insieme, costituisce forse il primo e più importante indizio di questa soggettività autocolonizzata. Cieca di fronte a qualsiasi dato reale, l’ideologia che la muove le consente unicamente di riprodurre un pensiero che disconosce il reale, imbastendo un ragionamento che inganna le menti. Bisognerebbe infatti chiedersi se Fois – o chi per lui perché, appunto, non è tanto l’individuo Marcello Fois qui il bersaglio, ma quel “soggetto autocolonizzato” che Fois abita e che lo ha anzi, come tale, istituito – sia effettivamente cosciente di quanto il suo discorso sia imbevuto di questa ideologia coloniale e subalterna, che costantemente forma, plasma e modella soggetti che hanno introiettato come naturale la loro subalternità. Egli probabilmente nemmeno ha idea di quanto la sua retorica paternalista sia in realtà espressione di una visione del mondo perfettamente coincidente con un paradigma neoliberale e subalterno, che aderisce pienamente ad una logica coloniale in grado di dipingere i sardi e la Sardegna con toni eternamente colpevolizzanti ed eternamente compassionevoli, capace di ridurre ogni questione reale e concreta ad una visione identitaria ed essenzialista, nella migliore delle ipotesi estetizzante e spoliticizzante verso ogni forma di agire concreto, collettivo, comunitario. E così eccolo all’opera il soggetto autocolonizzato: sempre pronto a colpevolizzare i sardi facendone degli «asini tenaci e mansueti», condannati irrimediabilmente ad un «destino di provincialità diventato endemico», con tutto il corollario di «frustrazione sociale, lagnosità diffusa, impossibilità di assumersi responsabilità pubbliche». Senza rendersi minimamente conto che si tratta esattamente di quegli stessi sardi nei confronti dei quali, invece, quel soggetto autocolonizzato dovrebbe essere solidale e mostrare rispetto. Non fosse altro per il fatto che la maggior parte degli interventi risolutivi nel Montiferru sono stati possibili grazie all’azione collettiva delle persone comuni, di quegli stessi sardi che si sono mobilitati per salvare il bestiame e prestare soccorso, per salvaguardare alcuni centri abitati rimasti pressoché indenni (come a San Leonardo di Siete Fuentes), e che senza questo intervento collettivo e comunitario, auto-convocato e spontaneo, sarebbero sicuramente andati incontro a ben altra sorte. Quelli che il soggetto autocolonizzato colpevolizza, accusandoli di essere «bravissima gente che sta sperperando il proprio territorio fisico e, con esso, anche quello antropologico», sono in realtà quegli stessi sardi che da tre giorni stanno rimboccandosi le maniche per prestare soccorso agli sfollati, per mettere al riparo il bestiame sopravvissuto, per cercare di procurare foraggio e mangimi, acqua e ogni sorta di bene per le comunità devastate dal fuoco e dalla cenere. Accanto al meccanismo di colpevolizzazione, un altro meccanismo agisce e muove il pensiero del soggetto autocolonizzato, ed è quello della “decontestualizzazione”. Vale a dire l’assoluta incapacità di collocare i fenomeni e le questioni all’interno di una prospettiva più ampia, l’impossibilità di produrre una visione d’insieme che tenga conto di tutti quegli aspetti politici ed economici, di tutti quei fattori strutturali, di fronte quali i comportamenti dei singoli rappresentano non il cancro, non la malattia, non la radice del problema ma, casomai, una risposta sintomatica, l’indizio di una patologia nascosta, non immediatamente evidente, non identificabile limitandosi a sguardi superficiali. Ecco perciò che fenomeni come spopolamento, smantellamento del patrimonio culturale e linguistico, occupazione militare, utilizzo della Sardegna da parte di Stato e multinazionali come gigantesca discarica di rifiuti speciali, assenza strutturale di infrastrutture materiali e immateriali; e poi ancora dissesto idrogeologico, impoverimento generalizzato della popolazione, emigrazione di larga parte della popolazione giovanile e, non da ultimo, l’annoso problema degli incendi, sono le tante facce di una «provincialità endemica» che ha voluto, accettato e determinato «noi brava gente di Sardegna». A voler osservare la realtà con occhi critici, a volersi levare le lenti del colonialismo, provando a guardare alla Sardegna da una prospettiva non subalterna, in altre parole svestendo i panni di quel soggetto autocolonizzato che troppo spesso abbiamo impersonato e continuiamo ad impersonare, ci si potrebbe ritrovare col domandarsi, ad esempio, per quale motivo, al cospetto di una situazione strutturale di rischio idrogeologico e incendiario, non esista una campagna di sensibilizzazione e di addestramento della popolazione, così come avviene nelle zone soggette a rischio sismico, in modo che anche laddove la risposta agli incendi avvenga a carattere volontaristico, vi sia un’adeguata preparazione di base da parte della popolazione. Provando a pensare da soggetti non subalterni, ci si potrebbe chiedere, ancora, per quale motivo, nonostante la Sardegna sia la regione più militarizzata d’Europa, questa presenza massiccia dell’esercito e delle forze armate non possa essere impiegata, in situazioni di incendio e di devastazioni di questa portata, per dare sostegno umanitario alla popolazione facendo sì che non sia abbandonata a sé stessa, creando canali privilegiati di approvvigionamento di acqua e di beni di prima necessità, fornendo soccorso agli sfollati, attrezzando servizi di pronto intervento per i cittadini e per il bestiame, attivando insomma tutte quelle procedure umanitarie per le quali la Brigata Sassari viene tanto incensata ed osannata, e per le quali invece, in Sardegna, quando c’è reale bisogno, sembra essere inesistente, latitante ed inutile. Oppure, se interviene, presenta la parcella. A voler tentare di pensare in maniera non subalterna, svestendo i panni dell’autocolonialismo, agendo da soggetti liberi, ci si sarebbe potuto chiedere perché un territorio come la Sardegna, in cui il rischio di incendi rappresenta una costante strutturale, non sia dotato di mezzi risolutivi adeguati, che debbano invece sempre essere affittati all’occorrenza, con costi spesso esorbitanti; ci si sarebbe potuti interrogare sul perché in Corsica, con una superficie molto inferiore a quella sarda, con un sottobosco e campagne molto più curate perché presidiate e con una presenza di acqua assai maggiore, ci siano 12 canadair a fronte dei 3 gentilmente concessi dal Dipartimento Nazionale di Protezione Civile. Si sarebbe potuta porre la questione della prevenzione e della cura delle zone boschive e delle campagne. E ancora si sarebbero potute porre questioni relative all’incapacità di organizzare un servizio di Protezione Civile regionale, calibrato e tarato sulle esigenze specifiche del territorio sardo e non su quelle del resto dello Stato, dell’Italia, che presenta problematiche e criticità spesso completamente differenti da quelle isolane. Una mancanza alla quale non si può sopperire unicamente con la preparazione del personale di servizio e dei VVFF, ma su cui si deve necessariamente intervenire attraverso un investimento adeguato di mezzi e di risorse. L’ideologia che muove il soggetto autocolonizzato impedisce appunto di considerare e trattare le questioni in un’ottica più ampia, in una visione che vada al di là della mera e banale colpevolizzazione e responsabilizzazione del singolo. La quale, di contro, contribuisce a deresponsabilizzare e assolvere la società, la politica, le istituzioni. Colpevolizzare i singoli, la “brava gente”, andare alla ricerca del dolo e dei responsabili è un modo errato, ma efficace, per aggirare le responsabilità politiche che stanno dietro al problema incendi in Sardegna, per seppellire sotto la cenere l’incuria in cui versano da decenni i territori di demanio pubblico; è una maniera comoda per tacere sulla mancata erogazione di risorse che consentano l’apertura di cantieri territoriali, che permettano lo sfalciamento delle zone boschive e la pulizia delle aree di transito, la creazione di strisce tagliafuoco. Si tratta, come già detto, di interventi che spesso, proprio per l’assenza di risorse, vengono svolti in maniera autonoma e volontaristica da quegli stessi singoli contro cui il soggetto autocolonizzato punta il dito, accusandoli e colpevolizzandoli: pastori, contadini, cittadini che hanno a cuore il proprio territorio e che cercano di sopperire, spesso con mezzi propri, in maniera volontaristica e spontanea, alle negligenze della Regione e dello Stato, alla mancanza di volontà politica da parte del mondo istituzionale e all’incapacità di agire in tal senso con interventi strutturati e organizzati, che non si riducano all’intervento occasionale e periodico. La politica evidentemente preferisce la gestione dell’emergenza. Molto più redditizia. Il primo riflesso pavloviano di tutta la politica istituzionale sarda, a Cagliari come a Roma, è stato chiedere soldi. E basta. Anche su questo si sarebbe potuta spendere qualche parola critica. Noi ci avevamo sperato, insomma. Speravamo di non dover leggere, ancora una volta, le solite lamentazioni del soggetto sardo autocolonizzato, di poter finalmente udire una voce che sappia levarsi al di là delle gabbie ideologiche del colonialismo, capace di uno sguardo e di una prospettiva diverse. Siamo tuttavia consapevoli della paradossalità – una paradossalità di cui bisognerà prendere atto e al contempo tentare di interrogare – che un tale sguardo e una tale prospettiva provengano spesso dal di fuori, da un punto di vista esterno ed estraneo, non sardo. E questo, con ogni probabilità, perché la macchina che produce soggetti autocolonizzati, … Leggi tutto Il fuoco della subalternità e i suoi intellettuali organici
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