La storia fuori di sé: uso pubblico della storia e Public History in Sardegna
di Omar Onnis
– tempo di lettura: 13 minuti –
Un documentario televisivo, un manuale scolastico, l’orazione pubblica di un’alta carica politica, una ricorrenza civile, un monumento, la denominazione di una piazza: sono occasioni e contesti diversi in cui entra in gioco la storia. Su questo terreno si incontrano, a volte sovrapponendosi a volte scontrandosi, tre ambiti o modalità di narrazione storica: la cosiddetta Grande narrazione, l’”uso pubblico della storia” e la Public History. Cosa sono? Come interagiscono? Qual è la loro declinazione in Sardegna e con quali esiti?
La storia e le sue modalità di narrazione e diffusione
Quando si parla di storia e storiografia si intende comunemente la disciplina storica nei suoi contenuti e nei suoi tratti metodologici (Chabod 1992; Bloch 1998), quella che si apprende nei corsi scolastici e universitari e che, se si sceglie quella strada, si pratica come forma di ricerca e di didattica. Tuttavia, non è propriamente questa la storia che fa parte dell’immaginario delle persone, che ne delimita l’appartenenza, ne denomina gli spazi pubblici, ne scandisce i tempi di vita tramite celebrazioni e ricorrenze. Questo secondo tipo di storia è quella che viene comunemente definita Grande narrazione pubblica della storia e ha a che fare con le istituzioni politiche e con gli orientamenti di base (ideologici) dell’organizzazione del sapere. Alla Grande narrazione non è estraneo l’uso pubblico della storia, ossia quello che Jurgen Habermas, in un famoso dibattito del 1986 (“Historikerstreit”), stigmatizzava come discorso storico esterno ai confini e ai limiti della disciplina storiografica propriamente detta e che sconfina, in varia misura e a vario titolo, nel campo dell’ideologia, della propaganda e persino – nel caso tedesco – del revisionismo. Dell’uso pubblico della storia Nicola Gallerano (Gallerano 1995) dà invece un’accezione più ampia e non necessariamente negativa, ricomprendendovi qualsiasi forma di discorso e di narrazione di tipo storico fatta pubblicamente, con i mezzi più disparati e prima di tutto tramite i mass media. Questa accezione di uso pubblico della storia ha evidenti consonanze con la cosiddetta Public History, benché quest’ultima abbia un’accezione meno ampia e indeterminata. La Public History si avvicina di più al concetto di divulgazione storica, ossia alla diffusione di contenuti storici fuori dagli spazi e dai percorsi strettamente accademici, non sempre e non solo ad opera di storici di professione.
Uso pubblico della storia e nazionalismi
Se la Public History nell’ambito culturale italiano ha uno statuto ancora incerto e fatica a trovare riconoscimento e piena legittimazione, la Grande narrazione storica e l’uso pubblico della storia, anche nei termini deteriori individuati da Habermas, sono invece parte integrante della stessa esistenza dell’Italia come compagine politica unitaria. La costruzione ideologica che alimentò il Risorgimento e poi il fascismo, con il suo vittimismo e la sua vanagloria, si basava su elementi storici o pseudo-storici (Banti 2011). Dopo una lunga fase di quiescenza, il nazionalismo italiano è riemerso prepotentemente alla fine del XX secolo sulle ceneri della Guerra fredda e della cosiddetta Prima repubblica. La pacificazione artificiosa voluta da tutte le forze parlamentari negli anni ‘90, posta a fondamento di una presunta e pretesa memoria condivisa (Barbero 2019, https://www.youtube.com/watch?v=jogFHHcjOsE), ha conformato la nuova Grande narrazione italiana e ha fatto di nuovo largo uso pubblico della storia, anche a livello istituzionale (Luciano Violante, discorso di insediamento come Presidente della Camera, 10 maggio 1996; Carlo Azeglio Ciampi, Bologna, 14 ottobre 2001) e mediatico (Roberto Benigni al Festival di Sanremo del 2011). Non ha mai messo di funzionare il dispositivo retorico degli “italiani brava gente”, molto popolare, benché contestato dalla storiografia più avvertita, specie quella che si è occupata del colonialismo italiano (Del Boca 2005). La narrazione pubblica italiana si nutre insomma di una rinnovata enfasi nazionalista, a tratti persino militarista, imposta egemonicamente (Patriarca 2010; Raimo 2019). Se ne è giovata la retorica delle “missioni di pace” (ossia l’impegno militare all’estero) e quella sullo “scontro tra civiltà”, in funzione geo-politica e ideologica anti-musulmana. Ha persino ripreso corpo, con maggiore coraggio che in passato, una narrazione revisionista del fascismo o di alcuni momenti topici della storia italiana, soprattutto riguardo a porzioni territoriali di confine (pensiamo soprattutto al “confine orientale”: WuMing1 2015). Non a caso la ricorrenza del 25 aprile suscita oggi indifferenza o aperta avversione in una parte non marginale del paese, e non ha sortito grandi risultati l’istituzione di una ricorrenza come la Giornata della Memoria (27 gennaio, ricordo delle vittime delle stragi naziste). Quest’ultima è stata addirittura bilanciata da un Giorno del Ricordo, fissato al 10 febbraio (ricordo dell’esodo degli italiani istriani e del fenomeno delle “foibe”), su forte richiesta delle destre. Le obiezioni argomentate di alcuni storici di fama e le prese di posizione critiche di alcuni intellettuali, non necessariamente di medesimo orientamento politico, non hanno avuto particolari effetti sul comune sentire e sulla narrazione dominante.
Non è un fenomeno prettamente italiano. L’esistenza di tutti gli stati contemporanei sarebbe impensabile senza un uso massiccio e spesso ben concertato di strumentazione storiografica a scopi politici. Le grandi ideologie che dalla fine del Settecento hanno conformato il mondo europeo (ossia, non soltanto l’Europa in senso geografico) si sono nutrite prevalentemente di contenuti storici (Hobsbawm 1987, 1991; Smith 1998). Il processo di nation- e state-building tra Sette e Novecento si è retto su coordinate storiche e su eventi che scandiscono il tempo dei cittadini, così come sull’odonomastica, che ne definisce simbolicamente gli spazi pubblici.
Negli ultimi anni la forte ripresa di tematiche e discorsi di natura nazionalista, spesso sfociati in esiti politici macroscopici, è emersa in quasi tutto il mondo di cultura europea e anche altrove. Basti pensare alla Brexit nel Regno Unito, alla ventata neo-franchista nel Regno di Spagna (alimentata dalla questione catalana, ma sempre latente), alla deriva autoritaria e oscurantista di Ungheria e Polonia. E ancora, alla presidenza Trump negli USA, o, nel Mediterraneo non europeo (o quasi europeo), alla Turchia neo-imperialista di Recep Erdoğan. Non in tutti questi casi la storia è stata usata in modo determinante per giustificare tali derive, ma in alcuni sì. Nella disinvoltura con cui le varie classi dominanti usano la storia politicamente c’è qualche differenza tra paese e paese, a seconda della robustezza della costruzione politica di ciascuno stato e in base al senso di appartenenza comune dei rispettivi cittadini. Su questo piano, la fragilità dello stato italiano è inversamente proporzionale alla pompa retorica e all’enfasi sciovinista che ne ha accompagnato la nascita e l’esistenza fino a oggi.
Uso pubblico della storia ed eventi recenti
Nel corso del 2020 abbiamo assistito a grandi discussioni circa i monumenti e l’odonomastica. Nelle stesse settimane, in concomitanza con l’espandersi dell’epidemia da SARS-Cov-2, è stata reiteratamente evocata l’influenza “spagnola” del 1918-20. Anche in questi casi, dunque, la storia è stata tirata in ballo. Ed è stata tirata in ballo la cosiddetta memoria collettiva, a volte sovrapponendola alla storia medesima. Le prese di distanza di alcuni commentatori accademici rispetto alle manifestazioni di piazza e verso la smemoratezza di massa nascono da una certa difficoltà degli storici a connettere il proprio lavoro di studio e di ricostruzione del passato con la sfera pubblica e politica, specie laddove esistano conflitti sociali e culturali aperti. L’irritazione di molti commentatori giornalistici, invece, deriva dalla percezione che mettere in discussione la Grande narrazione storica e i simboli che la rappresentano, o pretendere di utilizzare la storia *contro* il potere costituito, sia una minaccia politica.
Lo è, in effetti, ma non ha necessariamente un significato deteriore. Dipende da chi ne è il soggetto e da quali ne sono gli scopi. Chi stabilisce le coordinate della Grande narrazione pubblica di norma è la classe egemone, la parte della comunità statale che detiene il governo effettivo, che ha il controllo dei mezzi di comunicazione, che condiziona l’organizzazione del sapere. Esistono dunque differenze sostanziali tra le classi sociali e gli ambiti territoriali che tali contenuti storici hanno imposto e quelli che li hanno subiti (Gramsci 1975; Bhabha 2020).
In Sardegna
Se, nel contesto italiano, alla Grande narrazione istituzionale ha corrisposto negli ultimi anni una certa crescita della Public History, non si può dire lo stesso per la Sardegna. La diffusione e la ricezione di contenuti storici, nell’isola, stanno aumentando, ma con dei contorni e un andamento propri. Nella manualistica scolastica la storia sarda è assente o estremamente ridotta e marginale. Quando se ne rinvengono accenni, quasi sempre si tratta di notizie parziali e spesso scorrette. La casistica è ampia e si può giusto fare qualche esempio. In una sintesi cronologica di un testo di larghissimo e duraturo uso didattico (R. Villari 1967) si rinviene la nozione – fantasiosa – secondo cui la Sardegna nel 1016 fosse diventata un possedimento pisano. In molti manuali per le scuole secondarie la Sardegna del Cinquecento viene inserita arbitrariamente nel Regno di Napoli. Sono largamente ignorati la storia giudicale, la lunga vicenda del Regno di Sardegna spagnolo, il passaggio della corona sarda ai Savoia, la stagione rivoluzionaria. Si parla invece comunemente di un “regno sardo-piemontese”, quando non “del Piemonte”, entità politiche inesistenti. Questo, per restare ad un livello meramente evenemenziale. Se dovessimo cercare notizie più approfondite, di indole socio-economica o culturale, non troveremmo niente. Precisiamo che si tratta della manualistica scolastica in uso anche in Sardegna, ossia il primo e spesso il solo canale di informazione storica di cui dispongano i cittadini sardi. Non è molto migliore il livello della divulgazione. Benché negli ultimi anni qualcosa si sia mosso, con una crescente diffusione locale di pratiche ascrivibili alla Public History, a lungo è mancata una vera e solida divulgazione storica nell’isola. I pochi esempi disponibili pagano spesso un evidente tributo a una concezione stereotipata e prevalentemente evenemenziale delle vicende sarde (Brigaglia 2017). A sua volta la Grande narrazione pubblica in Sardegna, i cui mezzi di propagazione sono i mass media, il discorso pubblico istituzionale e la scuola, si basa su pochi e sedimentati elementi: la vicenda di Ampsicora; le continue dominazioni straniere, contrastate dalla “costante resistenziale”; Eleonora d’Arborea; la partecipazione alle vicende italiane contemporanee, come l’epopea idealizzata della Brigata Sassari, o i “due presidenti sardi” della Repubblica italiana (quasi tre, con Saragat, e senza dimenticare Enrico Berlinguer). Una lettura minimalista e subalterna della storia isolana, sia pure con connotazioni ideologiche para-nazionaliste. Le cornici utilizzate sono preferibilmente quelle della specialità e dell’autonomia, per lo più applicate in modo anacronistico e improprio. Tuttavia a questa minimale e contraddittoria Grande narrazione sarda si sovrappongono, orientandola e definendone i confini, la predominanza odonomastica risorgimentale e sabauda e la Grande narrazione nazionalista italiana. Quest’ultima si esercita soprattutto tramite le articolazioni locali dello stato: dirigenza scolastica, soprintendenze, magistratura, apparato militare. Mettere in discussione anche solo l’intitolazione di una piazza a qualche membro di Casa Savoia, in Sardegna, è pressoché impossibile (Sabino, Mongili e Perra, in Filosofia de Logu, 13 e 24 giugno, 21 luglio 2020). I mass media sardi, in questo senso, non solo non sono mai stati un contraltare o un filtro critico, ma anzi per lo più sono stati veicolo egemonico di tale ideologia della – potremmo dire – subalternità orgogliosa. Basti pensare all’insistenza con cui la stampa e le televisioni locali si prestano alla propaganda militarista, usando appunto la Brigata Sassari come dispositivo di persuasione: è la declinazione sarda, quindi subalterna, del militarismo italiano. È un elemento di cui si serve volentieri anche la stessa politica. La politica sarda, al contrario di quella italiana, fa poco uso pubblico della storia, se ne serve al più in termini rivendicazionisti, di solito puramente strumentali, ricorrendo a elementi retorici stereotipati (come appunto il mito della Brigata Sassari e del “sangue versato per l’Italia”) o a letture depotenziate delle vicende più rischiose sul piano politico. Basti pensare all’estrema prudenza o alla vera e propria reticenza con cui le istituzioni autonomiste maneggiano una ricorrenza come “Sa Die de sa Sardigna” (per alcuni anni dedicata a temi diversi ed estranei ai fatti rievocati, compresa la… Brigata Sassari); o, per restare all’epoca contemporanea, alle modalità con cui (non) celebrano il ricordo di circostanze e personaggi di rilievo, come, limitandoci a pochi esempi, i moti popolari del 1904-6, l’antifascismo sardo, i “fatti di Pratobello” del 1969.
Dibattito storico in Sardegna, modalità ed esiti
L’idea che i cittadini sardi hanno della propria storia è dunque condizionata da tutti questi fattori, finendo per sancire una collocazione collettiva in un tempo e in uno spazio indeterminati e in larga misura fittizi. Una forma di alienazione storica, che ha implicazioni ulteriori e tutte da indagare nei rapporti sociali, nelle dinamiche politiche, ma anche nell’ambito economico: un problema di democrazia, in definitiva. La domanda di conoscenze storiche che proviene dalla cittadinanza incontra poca offerta e spesso di scarsa qualità. A questo problema non dovrebbe rispondere la politica né l’uso pubblico della storia, bensì una divulgazione ben fatta, un insegnamento sistematico e pienamente legittimato della storia sarda nelle scuole, una maggiore sensibilità democratica da parte dei mass media e una più spiccata disponibilità degli storici alla socializzazione delle conoscenze. Una buona Public History potrebbe controbilanciare una Grande narrazione in cui la Sardegna resta una terra senza storia o ai margini della grande storia altrui, per quanto “speciale” e costantemente resistente. Dall’ignoranza storica, dall’incapacità di situarsi nel tempo (Bandinu 2010) e – possiamo aggiungere – nello spazio, nasce la facilità con cui possono essere imposti gli stereotipi tossici di cui è costituito in gran parte il nostro mito identitario (Onnis 2013): l’arretratezza, l’immutabilità, l’isolamento, i cliché pseudo-antropologici sull’esclusività sarda di tratti culturali come invidia, divisione, incapacità imprenditoriali, violenza, chiusura culturale. Al contempo, una cultura storica più diffusa e serenamente maturata sgombrerebbe il campo dalle periodiche polemiche tra megalomani dell’esclusivismo sardo e normalizzatori elitari. Sono due categorie speculari ma entrambe deleterie che con l’avvento dei social media hanno potuto egemonizzare il già debole dibattito pubblico. Da un lato i cultori di un passato per lo più lontano, coincidente con la protostoria sarda (periodo nuragico e dintorni), considerato grandioso ma occultato dalla storia e soprattutto dall’archeologia “ufficiali”. Dall’altro, il fronte di storici e soprattutto archeologi che osteggiano il culto etnocentrico delle origini e le annesse teorie del complotto. Al primo ambito, non sono estranei intenti di sfruttamento economico del patrimonio storico-archeologico né, in alcuni casi, posizioni politiche essenzialiste e reazionarie. Un uso della storia di carattere regressivo, oltre che scorretto sul piano del metodo (Onnis, SardegnaMondo, 3 ottobre 2020; Stiglitz, manifestosardo, 2 dicembre 2020). Tuttavia non è un fenomeno peculiare dell’isola. Ovunque esistano vestigia significative, magari monumentali, di un passato abbastanza lontano, sono diffuse teorie alternative, ipotesi cospirazioniste, una certa pubblicistica sensazionalista, esoterica o fanta-storica. Il problema non è l’esistenza di questa congerie di narrazioni, bensì l’eccessivo spazio che possono occupare laddove imperversino una diffusa ignoranza storica e al contempo una manipolazione strumentale dell’immaginario collettivo. I mass media, social e non, si offrono volentieri alle diatribe nate periodicamente su questo o quel tema, tra i due opposti schieramenti. Tuttavia, l’energia con cui una parte dell’ambito archeologico e storiografico cerca di delegittimare la pseudo-divulgazione e la fanta-storia (ma non le gravi lacune o le vere falsità della divulgazione istituzionale o della manualistica scolastica) appare eccessiva e persino controproducente. Sembra più una difesa corporativa che l’espressione di una legittima preoccupazione per la corretta ed edificante fruizione storica da parte dei cittadini e finisce per legittimare ed esaltare il suo stesso avversario. Per altro, tale contestazione si serve spesso di argomenti capziosi e fallaci, finendo per attaccare, nella foga della sua auto-difesa, anche le posizioni critiche argomentate e motivate, estranee ad obiettivi politici etno-nazionalisti o a interessi di speculazione economica. Tanta energia sarebbe forse spesa meglio nel dedicarsi alla divulgazione e alla socializzazione del sapere. Oltre che riguardo ai contenuti (certamente importanti), soprattutto riguardo al metodo, alla diffusione dell’approccio critico e della capacità di selezionare le informazioni. Abilità che, a ben guardare, servirebbero anche in ambiti diversi da quello strettamente storiografico, prima di tutto per difendersi dalla propaganda (politica o commerciale che sia) e dall’infodemia imperante. La conoscenza storica, nei suoi tratti pedagogici ed emancipativi, prima ancora che nei suoi contenuti, è uno strumento di democrazia, una sorta di diritto civile implicito. Se resta appannaggio di una ristretta élite di specialisti, magari gelosa del proprio ambito professionale e del proprio status sociale, perde molto del suo senso, finendo per giustificare la domanda (Nietzsche 1973) se sia maggiore l’utilità o il danno della storia per la vita.
Bibliografia
Bandinu, B. (2010) Pro s’indipendèntzia, Nuoro, Il Maestrale
Banti, A.M. (2011) Sublime madre nostra. La nazione italiana dal Risorgimento al fascismo, Roma-Bari
Bhabha, H. (2020) Nazione e narrazione, Milano, Meltemi
Bloch, M. (1998) Apologia della storia o Mestiere di storico, Torino, Einaudi
Brigaglia, M. (a cura di) (2017) Storia della Sardegna. Dalla preistoria ad oggi, Cagliari Ed. della Torre
Chabod, F. (1992) Lezioni di metodo storico, Roma-Bari, Laterza
Del Boca, A. (2005), Italiani, brava gente?, Vicenza, Neri Pozza
Gallerano, N. (a cura di) (1995) L’uso pubblico della storia, Milano, Franco Angeli
Gramsci, A. (1975) Quaderni dal carcere, Torino, Einaudi
Hobsbawm, E.J.; Ranger, T. (1987) L’Invenzione della tradizione, Torino, Einaudi
Hobsbawm, E.J. (1991) Nazioni e Nazionalismo, Torino, Einaudi
Heller, Á. (2009) 1. Dalla Grande Narrazione alle teorie della storia, in: Á. Heller (a cura di U. Perrone), Per un’antropologia della modernità, Torino, Rosenberg&Sellier
Nietzsche, F. (1973) Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Milano, Adelphi
Onnis, O. (2013) Tutto quello che sai sulla Sardegna è falso, Cagliari, Arkadia
Onnis, O. (2015) La Sardegna e i Sardi nel tempo, Cagliari, Arkadia
Patriarca, S. (2010) Italianità. La costruzione del carattere nazionale, Roma-Bari, Laterza
Raimo, C. (2019) Contro l’identità italiana, Torino, Einaudi
Smith, A.D. (1998) Le origini etniche delle nazioni, Bologna, Il Mulino
Villari, R. (1967) Storia medievale, Roma-Bari, Laterza
White, H. (1973) Metahistory. The Historical Imagination in Nineteenth-Century Europe, Baltimora, Johns Hopkins University Press
Wu Ming 1 (2015) Cent’anni a Nordest. Viaggio tra i fantasmi della “guera granda”, Milano, Rizzoli
Sitografia
https://www.youtube.com/watch?v=jogFHHcjOsE
https://www.ilsrec.it/uso-pubblico-della-storia-alberto-de-bernardi/
https://www.manifestosardo.org/unesco-unesco-delle-mie-brame/
https://www.filosofiadelogu.eu/2020/quei-condensati-simbolici-del-dominio-sui-sardi-2/
5 commenti
Alfonso Stiglitz
Un’ottima riflessione che condivido quasi in toto.
Mi lascia perplesso, però, la divisione (un po’ manichea, passami il termine Omar, so che non lo sei) tra i ‘fanta-archeologi’ (schematizzo per brevità) e gli archeologi che sarebbero impegnati strenuamente nel combattere i primi, trascurando la divulgazione e la denuncia delle falsità della storia istituzionale. Credo che la realtà sia più complessa: la lotta non è contro i ‘fanta-archeologi’ in sé, ma contro una certa tendenza che si sta facendo forza politica ed economica (anche potente e legata al potere) e che, quindi, va a incidere sul bene pubblico. Come tale è importante farla. Proprio in questi giorni la manovra della maggioranza regionale sul piano casa sta facendo emergere la pretestuosità della mozione Unesco (stessi i promotori di entrambe: Unesco e Piano casa) , funzionale appunto a far passare lo stravolgimento del piano paesaggistico proprio nella parte che riguarda gli “attrattori” (brutta parola) culturali. Una narrazione ‘tossica’.
Peraltro, l’archeologia è la branca storica che, oggi, in Sardegna fa il più alto uso della divulgazione con tutti gli strumenti, una divulgazione imponente, scarsamente supportata dai media, portavoce invece delle fantasie archeologiche. Dopo la recente trasmissione di Tozzi su Sapiens, l’Unione Sarda annunciò un servizio sul dibattito provocato dalla sua messa in onda: il servizio è consistito in una intervista allo stesso Tozzi. E questo vale per tutti i temi cari alla narrazione della storia della Sardegna che più colpisce l’opinione pubblica. In questo, e non solo, la narrazione della Brigata Sassari non è differente da quella degli Shardana conquistatori. Mai che si possano sentire voci dissonanti, che pure esistono.
Così come è ingiusto, o forse indice di poca conoscenza (scusami, ma vivo un’altra realtà), il ritenere che non vengano messe in discussione le narrazioni storiche istituzionali: lo si fa e anche con forti tensioni (ma di questo poco viene riportato).
Invece condivido in toto, il fatto che non ci sia attenzione alla manualistica scolastica, dalla quale sono estranei gli archeologi e che hanno, questa sì, la colpa di non interessarsene. Ma credo che il problema sia più generale e riguardi l’insegnamento della storia nella scuola: l’idea che debba essere insegnata una storia nazionale, ammesso e non concesso che nel passato possa avere avuto un senso (non lo credo), oggi è assolutamente priva di senso. Per quanto riguarda la scuola sarda, poi, l’insegnamento che avrebbe senso sarebbe quello di una storia globale per la complessità dei suoi percorsi (al plurale, non al singolare) dalla preistoria ai giorni nostri; avrei difficoltà a inserire la storia dei nuraghi o dei giudicati o dell’età spagnola, per citare i tuoi esempi, in un’ottica nazionale sia italiana, sia spagnola e sia, concedimi, sarda, quasi che il percorso stroico avvenga su strade predefinite ab origine e magari nel DNA (come purtroppo si sta dicendo, anche in ambiti scientifici). Per me l’errore è nel pensare nell’ottica di storie nazionali che finiscono per irrigidire il flusso delle nostre società mobili (e credo che in questo non siamo poi molto lontani, Omar).
admin
Alfonso, sollevi un problema che pongo io stesso in modo esplicito (anche se sintetico) in questo articolo ed anche in altri scritti: la comunicazione. I mass media hanno un ruolo e un peso rilevante. Su questo, va fatta una ulteriore riflessione, non solo riguardo a tematiche storiche. È un serissimo problema, in Sardegna (in questo fin troppo… italiana).
Tuttavia, non si possono negare alcune timidezze e alcuni conformismi di troppa intellighenzia “istituzionale” (diciamo così) di fronte alla narrazione prevalente sulla storia sarda nei media italiani e, in generale, di fronte alla grande narrazione nazionalista italiana in cui la storia sarda va inserita a forza oppure espunta del tutto (compresi i testi scolastici). Pensiamo al favore militarista con cui la stessa università accoglie esponenti delle forze armate ad ogni minima occasione e alla liason piuttosto “pericolosa” con l’industria bellica (camuffata da “ricerca aerospaziale” o altre diavolerie retoriche). In questa partita, il dispositivo “Brigata Sassari” ha una funzione fondamentale. Non metterei la retorica che riguarda la Brigata Sassari (per altro, con una confusione dolosa tra quella originaria e la nuova Brigata Sassari, riesumata negli anni Ottanta) alla pari con le narrazioni più o meno fantasiose sugli Shrdn. A questo proposito, ricordiamo che in materia c’è un dibattito in corso e che un archeologo come Giovanni Ugas ci ha dedicato anni di lavoro. La mitopoiesi para-nazionalista o nazionalista tout court che riguarda questa tematica, per quanto discutibile, non ha minimamente avuto né a tutt’oggi ha un impatto sul senso comune equiparabile a quello della Brigata Sassari.
Se l’archeologia sarda fa davvero una divulgazione “imponente”, ma “scarsamente supportata dai media”, direi che su questo occorrerebbe spendere qualche energia in più e magari lasciar perdere almeno per qualche momento la fantarcheologia. Che peraltro è un fenomeno diffusissimo. Non mi risulta che gli archeologi britannici dedichino tempo ed energie a smentire le tesi avventurose e persino i veri e propri culti nati intorno a Stonehenge, per dire. O quelli che si occupano di Antico Egitto, alla letteratura fantasiosa (e spesso fantascientifica) relativa alle piramidi. E non è che in quegli ambiti manchino investimenti istituzionali che giocano sul mito e una larga copertura mediatica di favore. È inevitabile. La Sardegna, disponendo di vestigia del passato così numerose ed evidenti, non poteva sottrarsi a tale fenomeno. Averne paura segnala una debolezza dell’ambito archeologico e storico su cui bisognerebbe interrogarsi.
Poi, chiaro, si tratta anche di distinguere tra il piano generale in cui si evidenzia un problema per così dire “strutturale” e quello più specifico in cui tutti gli ambiti di studio si articolano nella realtà, con i loro conflitti, le loro dinamiche interne, ecc. Ma anche qui siamo piuttosto indietro quanto a capacità di reggere il confronto e di accettare la discussione. Prevalgono gli usi “social”, anche nel senso che spesso l’unica sede in cui la discussione si sviluppa è Facebook, cosa che reputo estremamente controproducente o quanto meno sterile.
Accenno soltanto, in chiusura, al problema dei rapporti con lo Stato e con le sue articolazioni di governo (i ministeri competenti e le loro sedi locali). Anche su questo sarebbe opportuno fare qualche ragionamento, senza escludere per partito preso la possibilità di aprire un conflitto istituzionale, riguardo alle competenze, alla gestione del patrimonio storico-archeologico, alla questione “scuola”, ecc.
Infine, è vero che ridurre la storia a “storia nazionale” – intendendo per “nazione” un’entità alla fin fine totalmente a-storica, sempiterna, semplicemente imposta politicamente (ed egemonicamente) – è un’aberrazione da cui liberarsi. Ma questo è vero prima di tutto dentro un rapporto di forza diseguale in cui la “storia nazionale” imposta è una storia “altra”, di cui non sei parte o sei parte subalterna. Qui c’è uno strato doppio di uso strumentale della storia. Il primo da cui affrancarsi è quello che certifica e giustifica il rapporto di subalternità. Senza perdere di vista qualsiasi altro uso politico della storia, naturalmente. Ma non si può assolutamente porre sullo stesso piano la narrazione storica sciovinista e “coloniale” di cui si fa forte l’Italia e i tentativi, magari maldestri e mal fondati, di rispondere ad essa in Sardegna. Non è un confronto che mi appassiona, sia chiaro, ma le cose vanno pesate per quelle che sono e per ciò che rappresentano.
I temi sono tanti, come si vede, e questo è solo un punto di partenza per un dibattito che auspico più aperto, diffuso e coraggioso.
Ti ringrazio per il commento.
Omar Onnis
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